
Te lo dovevi aspettare, idiota.
Mi sono sentito più o meno come il maestro di Io speriamo che me la cavo, quando non riesce a dire zompaperete al bidello (Gigio Morra, scomparso da poco), mercoledì, alla fine di una diretta su Radio Tre a cui mi avevano chiesto di intervenire, dove non sono riuscito a evitare la tagliola del luogo comune, e a impedire che si tornasse a parlare di Sud, vulcani e fatalismo.
Martedì avevo scritto una cronaca della notte precedente, quando avevo gironzolato in motorino per i Campi Flegrei provando a raccontare l’incertezza, la paura, le domande che si sta facendo la popolazione e che si era giustamente fatta dopo uno sciame sismico con picchi al 4.4 di magnitudo (per strada, quella notte, tanti cronisti a prendere appunti e fare domande non ne avevo visti). Così nei giorni successivi un paio di radio mi hanno chiamato per avere notizie, credendomi esperto in smottamenti e placche tettoniche.
La colpa è solo mia. Avevo finito i minuti a disposizione, ma avrei dovuto lo stesso entrare a gamba tesa (tipo così). Suppongo mi abbiano condizionato le assemblee di giovani militanti che ultimamente ho frequentato, dove non interrompersi a vicenda, nemmeno per applaudire un intervento, è una regola severissima. E così ho taciuto, sperando invano che mi ridessero la parola.
Ospiti della diretta erano Maria Pace Ottieri (da rileggere, in questi giorni magmatici, il suo Vesuvio Universale) e Piero Sorrentino (che conduce Zazà, sempre su Radio Tre).
Ho sbagliato a non provare nemmeno a capovolgerlo (non Sorrentino, ma il suo ragionamento), quando ha snocciolato la sua linea per cui dovremmo smetterla con “fatalismo, superficialità e menefreghismo” sottintendendo che se abbiamo degli amministratori così incapaci di affrontare i problemi è perché ci rappresentano a pieno.
Piero caro, ma se io abito a via Pisciarelli da secoli, perché sotto alle fumarole dagli antichi romani in poi la mia famiglia ci coltiva la terra, e aspetto settimane per vedere un tecnico del Comune che fa un sopralluogo di dieci minuti al mio palazzo riempiendo una scheda con dei riquadri a matita per dirmi se è buono o se è fracico, se la notte sono in preda agli attacchi di panico perché qui le scosse sono belle forti e non so mai se il tetto reggerà, se quando me ne scappo fuori alla base Nato di Bagnoli non c’è manco un bagno chimico per farmi fare la pipì dopo sei ore che sono lì, e se soprattutto lo Xanax mi è molto più utile dei sindaci di Napoli e Pozzuoli messi insieme, non sarà che il fatalismo non è esattamente colpa mia? Non sarà che la gente è fatalista perché i nostri amministratori sono perlopiù inetti (che è diverso dal dire che i politici sono inetti perché la gente è fatalista?). Alla caldera l’ardua sentenza.
‘A zuppa ‘e soffritto: ecco il piatto del fatalismo dei napoletani (Il Mediano, dicembre 2012)
Serena Rossi: il segreto per avere tutto è il fatalismo (Io Donna, luglio 2021)
All’ombra del Vesuvio, tra fatalismo e speranza (Rai Radio Uno, marzo 2024)
Eppure a me pare che Gennaro Iovine prima di fissare il vuoto e aspettare nel suo basso che passi la nottata, ha rimesso in ordine i pensieri e ha provato a rivoltare come un calzino la sua famiglia perduta (a causa di una guerra che non ha certo voluto); mi pare che i fedeli anziché lasciarsi travolgere dalla lava abbiano preso San Gennaro (a ciascuno i propri referenti) e l’abbiamo messo in salvo, prima di chiedergli il miracolo; mi pare che – a proposito di scosse – dopo il sisma dell’80, mentre politici, imprenditori e camorristi si leccavano i baffi per una delle più clamorose pagine di corruzione nella storia del nostro paese, la gente si organizzava e lottava per chiedere un’abitazione dignitosa, così come fa da più o meno cinquant’anni per un posto di lavoro, e per tante altre cose, senza aspettare il panaro o la morte.
C’è un bell’articolo su Arab.it (sito interessante, non lo conoscevo, anche se inondato di pubblicità insopportabili) che spiega con precisione come la psicologizzazione dell’indigeno sia uno strumento dei colonizzatori – si parla nel caso specifico degli italiani in Libia – per giustificarne la sottomissione e la necessità di redenzione. Prigionieri del fato, è uno dei paragrafi più interessanti.
Un carattere ancor oggi affibbiato ai musulmani da parte di molti occidentali è quello del fatalismo; si tratta di un pregiudizio duro a morire, le cui radici potrebbero essere rintracciate in quella percezione “superomistica” che la civiltà moderna ha di sé e che porta a individuare del “fatalismo” ovunque non si scorga una pari volontà di dominio sul mondo. […] Che questo fatalismo derivasse dalla religione, e precisamente da un malinteso principio della predestinazione, talvolta veniva espresso a chiare lettere; per di più, a esso si amava giustapporre altre consuete peculiarità del musulmano medio e degli arabi, come logica conseguenza ‘dell’imperio di quel cieco fatalismo che costituisce una delle più spiccate caratteristiche della loro mentalità e che trova fondamento in altri fattori psicologici, quali l’apatia, l’indifferenza, l’imprevidenza, che più segnatamente differenziano i popoli semiti che professano l’Islam’. […] Era del tutto ovvio che le attività dei libici intraprese prima dell’arrivo degli italiani fossero marchiate da una mentalità fatalistica che avrebbe conosciuto ‘la sottomissione, non la lotta contro le difficoltà della natura’. (enrico galoppini, il pregiudizio sulle popolazioni della libia in epoca coloniale, arab.it)
Tutta questa storia (e il commento che ne ha fatto -fm) mi ha fatto ripensare a Leopardi, citatissimo, per lo più a sproposito, durante questa escalation bradisismica. Ma rivolgendosi alla ginestra, L. ci dice che se gli uomini si sono rifugiati nelle illusioni, dalle tenebre spiritualiste alle magnifiche sorti e progressive, possono uscirne solo con una “social catena” che stringa le forze dei mortali.
E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle,
né sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti.
(giacomo leopardi, la ginestra)
Forse non è l’empia natura il nemico, né lo sterminator Vesevo, dove comunque cresce lento e odoroso il fiore più bello. Non è (solo) contro di essa che gli uomini uniranno le reciproche solidarietà.
Tutto era fatto per questo, mi pareva: per presupporre una grande guida, venuta su lungo le vie del necessario, con lo splendore della poesia, dal fondo della mia storia, della mia cultura. Poteva essere, ad esempio, Gramsci stesso… lui, venuto fuori dalla piccola tomba del Cimitero degli Inglesi a Testaccio, con la sua schiena di piccolo, eretto Leopardi, la fronte rettangolare della madre sardegnola, la capigliatura un po’ romantica degli Anni Venti, e quei poveri occhiali d’intellettuale borghese… (pierpaolo pasolini, divina mimesis)
(riccardo rosa)