Uno dei custodi della mia vecchia scuola media sosteneva che se nei giorni di forte caldo si fosse cosparso l’asfalto di pipì e ci si fosse buttato un fiammifero acceso sopra si sarebbe provocato un incendio indomabile (a lungo, con i miei compagni di classe, ci abbiamo provato, una volta anche in prossimità dell’auto della professoressa di matematica, ma senza grossi risultati).
Il forte caldo è arrivato, e l’asfalto sembra sprigionare in questi giorni fuoco e fiamme anche senza quest’ammoniaca naturale. Nella rassegna stampa di ieri abbiamo raccontato della schizofrenia del comune di Napoli che lancia l’allarme sulle alte temperature citando un rapporto dell’università (2020) all’interno del quale si proponevano una serie di soluzioni sensate, tipo piantare alberi. Naturalmente il comune mette l’accento sull’allarme e non sulle mancate soluzioni, ma basta guardarsi un po’ intorno in città per rendersi conto di come la mancanza di cura abbia devastato il (già scarso) verde pubblico. Però certo, è più facile dire che il caldo è fuori controllo, creare prima il panico e poi affidarsi al fatalismo.
Quando ero bambino già tenevo la fascinazione per questi operai. Suonava la sirena e correvo al balcone per vederli uscire tutti insieme dallo stabilimento. Poi man mano li conoscevo, ci facevo politica insieme. Un periodo, da studente, avevamo preso l’abitudine di picchiare certi fascisti della Fiamma, che venivano fuori alle scuole a provocare. E ogni tanto se c’era bisogno venivano pure un paio di operai. Mi ricordo che talmente l’avevamo messo in croce a uno di questi, che era di Bagnoli, che se mi incontrava per strada diceva: “Ma perché mi aggredite? Io faccio politica per i fatti miei!”. Io rispondevo: “Perché così mi dice la testa, che ci vuoi fa’, c’ho fatto l’abitudine. Così come mi piglio il caffè e latte la mattina, se ti vedo t’aggia vattere’”. (da un’intervista ad aldo velo, ex operaio, 2018)
Fuoco e fiamme hanno devastato nei giorni scorsi un’ampia parte della collina dei Camaldoli. L’incendio è stato doloso (è stato ritrovato l’innesco): all’origine probabilmente il business della rimozione dei detriti. Nemmeno più la speculazione edilizia… la rimozione dei detriti. Praticamente brucio perché poi mi pagherai per pulire ciò che ho bruciato. Senza scomodare Leopardi (anche su questo abbiamo già dato) o scivolare nel catastrofismo panteista, il tutto mi pare abbastanza indicativo del rapporto uomo-natura.
Non importa dove, non importa come,
partire,
andare verso lontano, verso fuori, verso la distanza astratta.
Andare, andare, andare,
tutto il mio sangue chiede ali,
tutto il mio corpo si scaglia in avanti e la mia carne è un’onda sugli scogli.
Fuoco fuoco fuoco sangue sangue sangue,
mi scoppia tutto il cervello
e il mondo mi si traforma in rosso.
(antonio neiwiller, la natura non indifferente)
Quando lo scorso anno ad alcuni componenti della redazione di MONiTOR venne in mente di organizzare una rassegna cinematografica, fu naturale chiamarla A FUOCO!. Tra i fili conduttori dei film che proponevamo c’era infatti un processo di distruzione, finalizzato a una ricostruzione volano di profitto e capace allo stesso tempo di cancellare tutte le tracce del passato (avevamo in quella prima edizione mostrato film girati in un campo di profughi palestinesi in Siria, in un edificio in via di smantellamento a Londra, in un campo di baraccati a Torino e in un’area urbana a nord-est di Damasco). Non potevamo immaginare quello che sarebbe successo dopo meno di un anno nei territori occupati palestinesi, quando l’esercito israeliano ha avviato ciò che nei suoi piani dovrebbe essere l’attacco decisivo a ciò che resta della Palestina, la distruzione totale e la ricostruzione di un territorio che non dovrà più avere storia né memoria.
A: Facciamo che alcune persone da Fureidis si presentano e dicono: “Vogliamo costruire un monumento in memoria dei nostri cari”.
B: Non penso che glielo permetterebbero. L’intero kibbutz, non solo io.
C: Non glielo hanno permesso.
B: Perché se lo chiedono è perché per loro è importante.
C: Sì, è importante.
B: Se è importante per loro, mi fa male. Non c’è Tantura qui, non c’è Tantura qui adesso. Non c’è più il villaggio di Tantura.
A: La sua storia…
B: Possono prendere chiunque sia sepolto lì e seppellirlo a Fureidis.
A: Ma un monumento non è per le tombe. Un monumento è per non dimenticare quello che è successo.
C: È vero. Questo è quello che vogliono.
B: Questo è quello che vogliono, ma io no. Io non lo voglio.
C: Penso che abbiano il diritto di ricordare, no?
B: Certo, possono ricordare tranquillamente.
C: Come noi ci ricordiamo che eravamo in Europa, loro vogliono ricordare che erano qui.
B: Non servirebbe a niente, cari miei. E in più, se c’è una targa, c’è anche una proprietà.
C: Ci sta chiedendo cosa pensiamo, non cosa servirebbe. Tu cosa vuoi?
B: Una targa significa proprietà. È una questione di proprietà. Un monumento significa: “Questo è mio”. Non può andare così.
(da un dialogo tra il regista alon schwarz e due coloni israeliani insediati nel 1948 sulle macerie del villaggio di tantura¹).
Avevo un amico a Londra che lavorava in una pizzeria nella zona nord della città, uno di quei locali di una catena commerciale in cui tutto deve meticolosamente fingere di essere italiano. La pizza non era male (la faceva il mio amico) ma il manager con cui dovevo ogni sera intrattenermi a chiacchierare mentre lui staccava era davvero insopportabile, con i suoi racconti sulle sue gite a Positano e i colori della Costiera. Per (sua) fortuna il mio amico è andato a vivere a Brighton. Mi spiace non poterlo salutare di tanto in tanto, ma quando sono qui altri amici mi portano a mangiare in posti spettacolari (tipo questo). La pizzeria si chiamava Fuoco’s. (riccardo rosa)
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¹Per approfondire la storia della distruzione del villaggio di Tantura e del massacro di centinaia di civili palestinesi disarmati si raccomanda la visione dell’omonimo film.