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roma
10 Maggio 2019

La posta in gioco a Casal Bruciato

Monitor
(disegno di valentina galluccio)

da: Levante

Nel pomeriggio dell’8 maggio 2019 lo scenario che si trova di fronte chi risale via di Casal Bruciato dalla Tiburtina, rappresenta uno spaccato devastante. Proprio sotto la casa popolare dove vive assediata la famiglia di Imer e Senada troneggia protetto dalle forze dell’ordine un gazebo allestito dai neofascisti di Casapound. Alcune decine di metri più avanti, letteralmente intrappolati tra una fila di blindati e i palazzi, stazionano i primi manifestanti che hanno raccolto l’appello dei movimenti per il diritto all’abitare.

La fotografia è sempre la stessa da due giorni: i militanti neofascisti e chi li segue sono liberi di aggredire, insultare, minacciare tutti coloro che entrano e escono dal palazzo. Compresi Imer, Senada e i loro figli e compresa la sindaca Raggi, che nella mattinata per andare a visitare la famiglia è dovuta passare sotto le forche caudine dei fascisti.

Gli attivisti dei movimenti per il diritto alla casa, gli abitanti del quartiere che non si riconoscono nelle posizioni dei neofascisti, le associazioni solidali con la famiglia di Imer e Senada sono invece tenuti a distanza e immobilizzati da uno schieramento aggressivo di polizia. Alle 16 la piazza si comincia a riempire, iniziano gli interventi al megafono: tutti ricordano che la casa è un diritto, che non è possibile aggredire chi entra in una casa popolare e minacciare una intera famiglia, che i problemi del quartiere e degli abitanti delle case popolari si devono affrontare con gli strumenti della lotta verso le istituzioni e della mobilitazione sociale, non aggredendo i vicini di casa. Dai balconi qualcuno dissente e qualcuno applaude. Questa sarà una costante dell’intero pomeriggio, una costante che dimostra chiaramente come nelle periferie non abitino bestie indemoniate come sembrerebbe dalla lettura dei giornali ma persone in carne e ossa capaci di stanare le provocazioni e di scegliere da che parte stare, non subendo affatto in modo passivo e rassegnato la speculazione e il can can dei neofascisti. Il presidio si riempie e la tensione sale. La piazza è sempre più determinata a uscire dal budello in cui è stata confinata. La composizione è molto variegata. Ci sono molti manifestanti giovani e ce ne sono diversi più anziani, che ricordano tutte le lotte che dagli anni Sessanta gli abitanti del quartiere hanno dovuto fare per avere case e servizi. Nel quartiere ogni servizio pubblico e ogni spazio verde è stato strappato alla speculazione con decenni di battaglie: le case popolari, le scuole, il parco della Cacciarella (unico lembo di terra non cementato in una zona iperdensamente costruita). Oggi nella zona sono presenti spazi sociali e associazionismo di base, che rappresentano l’eredità di quelle lotte: si fanno sentire e garantiscono agibilità e ascolto alla manifestazione. 

Si affaccia anche una delegazione del Pd capeggiata da Matteo Orfini, che riceve un’accesa contestazione: i manifestanti gli rinfacciano l’infame articolo 5 del decreto Lupi e protestano perché ricordano che la regione Lazio a guida Pd non sblocca i fondi ingenti che preferisce tenere nel cassetto con cui potrebbe affrontare l’emergenza abitativa. Stufi di restare bloccati i manifestanti sparigliano le forze dell’ordine e si muovono in direzione opposta a quella dove sono posizionati i blindati. La manovra riesce. Il corteo si ricompatta dall’altra parte della strada, non mancano momenti di tensione, spintoni, qualche manganellata ma la manifestazione dimostra compattezza e determinazione e dopo una lunga contrattazione riesce a muoversi in corteo.

Le sensazioni che trapelano da una giornata così intensa sono molte e contrastanti. Prevalgono due sentimenti. Da un lato la rabbia per l’impunità di cui godono persone libere di incitare alla violenza e allo stupro e di costringere a vivere come prigioniera una intera famiglia: sembra che lo Stato, tra le tante cose che ha delegato, abbia iniziato a delegare anche l’uso della violenza. Dall’altro lato emerge la consapevolezza che la partita è ancora tutta da giocare: i quartieri popolari non sono affatto semplice terra di conquista per gli istinti più beceri come una certa lettura spocchiosa e razzista vorrebbe far pensare. Sono invece luoghi dove vivono persone che si informano, reagiscono, combattono e che hanno mostrato di non essere per niente compattate attorno alle posizioni dei neofascisti. Ai bordi del corteo si affacciavano molte persone curiose, che salutavano amici e conoscenti in piazza, insieme a qualcuno che non lesinava insulti. La posta in gioco è altissima: speriamo che in tanti non si limitino a continuare a stare a guardare ma capiscano quale è la parte giusta dove stare. (redazione)

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