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14 Gennaio 2020

La religione non basta più. Bilancio di tre mesi di proteste in Libano

Giovanni Vimercati
(disegno di cyop&kaf)

In questi mesi in Libano si è passati dalla baldoria insurrezionalista alle mazzate, nuovamente alla baldoria per poi ripassare dalle mazzate. Nel frattempo tutto è per sempre cambiato senza che sia veramente cambiato nulla.

Per la prima volta dopo la guerra civile i leader delle varie comunità politico-confessionali sono stati mandati affanculo, a gran voce e, inauditamente, a volto scoperto. Nessuno è stato risparmiato, neanche Hassan Nasrallah, forte di una milizia più potente e militarmente capace dell’esercito stesso e di una retorica anti-sionista che, a fronte di una crisi economica devastante, evidentemente non basta più. Così come non sono bastati più i sussidi che, rigorosamente in dollari, gli Hizballah elargiscono alla propria base in cambio di lealtà e in mancanza di uno stato sociale. Un sistema che sembrava eterno e radicato ha tremato sotto i colpi della protesta a oltranza ed è ora appeso a un filo. Un filo che potrebbe reggere altri trent’anni, non perché robusto, ma per dolorosa mancanza di un’alternativa. Mancanza che nelle strade in rivolta della capitale si è manifestata in maniera beffarda e, solo all’apparenza, paradossale. 

Il nucleo propulsore delle proteste a Beirut, composto per lo più dalle fasce meno abbienti della comunità sciita, in poco più di una settimana è rientrato nei ranghi, richiamato all’ordine dalla propria leadership. Gli stessi che hanno acceso le fiamme della rivolta sono tornati a spegnerle con la forza, più volte, senza mai riuscirci. Dopo avere platealmente sputato nel misero piatto in cui sono costretti a mangiare, e avere rovesciato il tavolo con un colpo di mano, i dannati della metropoli hanno dovuto guardare la triste realtà in faccia e dedurne che, al di fuori del comunitarismo confessionale ultra-liberista, c’è il deserto. Un deserto spietato dov’è impossibile sopravvivere. La questione per loro, come ha giustamente osservato una mia compagna irachena, è esistenziale, non più politica. Alla consapevolezza nei confronti di un sistema ingiusto e approfittatore corrisponde infatti un’atrofia debilitante dell’immaginazione e della pratica politica, qui come altrove. In Libano tutti sono, volenti o nolenti, inglobati nel capillare sistema confessionale che gestisce l’allocazione del potere politico e delle risorse economiche. Di pubblico c’è ben poco in questo paese, a parte l’aria avvelenata. Persino i sindacati, che durante la guerra civile furono l’unica forza politica in grado di mobilitare la popolazione orizzontalmente e al di là dell’appartenenza confessionale, sono stati cooptati e neutralizzati sul piano politico.

UN NUOVO IMMAGINARIO
A fronte di tutto ciò qualcuno si domanda a cosa serve scendere in piazza, facendo notare che, pur in assenza di governo, la classe politica libanese non si è mossa di un millimetro. Lì sono e lì contano di rimanere, dinastici e inamovibili. I movimenti di protesta non vincono le elezioni, non le hanno mai vinte. L’hirak (“movimento” in arabo) in Libano ha avuto il merito di spalancare l’immaginazione sul presente e su un possibile futuro, ha cominciato a scavare nel profondo della mentalità dei partecipi e dei coinvolti. Non solo non si è fermato, ma nel suo procedere ha acquisito una coscienza politica che all’inizio era poco più che embrionale. Per la prima volta in cinquant’anni gli studenti sono tornati in piazza, le fede cieca e devota nel capitalismo è stata messa quantomeno in discussione. Fede che per altro in Libano ha radici storiche profonde, che affondano nella mitologia della “repubblica dei mercanti” prima e della “Svizzera del Medio Oriente” dopo.

Alla graduale politicizzazione del movimento è corrisposta una diluizione dei toni e dei colori patriottici che avevano contraddistinto le prime settimane di protesta. Le bandiere libanesi sono quasi scomparse dai cortei. Al loro posto, slogan sempre più duri e affilati. Se da un lato i numeri sono inevitabilmente calati, le tattiche contestatarie si sono ingegnate e hanno preso di mira i simboli del liberismo cleptocratico libanese. Manifestanti hanno occupato per un pic-nic popolare Zaituna Bay, lussuosa marina in centro cittadino dove i miliardari galleggiano spaparanzati sugli yatch nella loro stessa merda (uno dei tanti sbocchi fognari della città confluisce proprio lì). Sono stati messi fuori servizio diversi parchimetri, infrante e date alle fiamme le vetrine di alcuni istituti bancari. Si stanno organizzando insolvenze di massa e auto-riduzioni sulle bollette dell’elettricità, snodo principale dell’estorsione politico-confessionale (è dai tempi della guerra civile che l’elettricità viene interrotta diverse ore al giorno al fine di obbligare gli utenti a pagare una somma extra, oltre alla bolletta già salata, per attaccarsi al generatore gestito dalle varie cosche facenti riferimento a tutti i partiti dell’arco costituzionale). L’immaginario politico di un’intera generazione si è aperto al futuro, al contempo buio ma anche aperto per la prima volta dopo anni. Persino la generazione che ha vissuto la guerra ha messo da parte i pregiudizi e le paure che mai l’avevano abbandonata.

Protagoniste sin dai primi giorni di rivolta, le donne sono scese in piazza il 7 dicembre in una manifestazione imponente contro la violenza di genere e il patriarcato che qui in Libano si articola in maniera ecumenica e bipartisan (checché ne dicano quei gran teologi della Meloni e di Salvini). Al contrario delle proteste in Iraq e in Iran, o in Sudan qualche mese fa, in Libano la repressione è stata relativamente clemente. Il fatto che il potere non sia concentrato nelle mani di un solo uomo o partito ha fatto in modo che nessuno si sia sobbarcato l’infame compito di reprimere le proteste nel sangue. Unica eccezione, gli Hizballah e i loro alleati “light”, Amal, che in più di un’occasione hanno usato le maniere forti per disperdere i manifestanti e distruggere l’accampamento ormai permanente in piazza dei Martiri, in pieno centro a Beirut.

NON SOLO BEIRUT
Il fatto che la repressione settaria e il tentativo di dividere la piazza su base confessionale siano falliti è un dato molto significativo che la dice lunga sulla coscienza che queste proteste hanno creato e continuano a difendere. Per anni infatti, al primo accenno di protesta trans-confessionale, il regime ha calato la carta settaria con successo, dividendo i manifestanti facendo leva sulle divisioni religiose, o presunte tali, che attraversano la società libanese. Qualcosa però è cambiato, questo sì forse in chiave veramente rivoluzionaria per quanto concerne il contesto libanese. Le provocazioni a sfondo confessionale non hanno attecchito. Gli sgherri di Amal e Hizbollah hanno menato le mani, ma non sono riusciti a dividere la piazza. I politici di tutti gli schieramenti hanno tentato lo stesso, con la retorica al posto delle mani, ma anche loro hanno fallito miseramente. Il vituperato ministro degli esteri Gebran Bassil, la cui madre era stata al centro dei cori di sfottò dei primi giorni di rivolta, ha addirittura chiamato al boicottaggio del Metro al-Madina, storico teatro di Beirut, dopo che un video che mostrava il pubblico cantare gli stessi slogan durante uno spettacolo era circolato online. Non solo i politici sono impotenti, ma non si aggirano più per il paese con la stessa sicumera di un tempo. L’ex primo ministro Fouad Siniora è stato cacciato a male parole dal concerto di fine anno all’American University of Beirut, un altro politico è stato allontanato dai manifestanti da un ristorante del quartiere della movida di Gemmayzeh. 

Sono ormai tre mesi che le proteste si susseguono quotidianamente in tutto il Libano, in un’ondata policentrica destinata a segnare la storia di questo paese. E di tutto il paese si tratta, non solo della sua capitale (storicamente al centro degli snodi politici più importanti). Una delle roccaforti della rivolta è stata infatti la seconda città libanese, Tripoli, che a suon di sarcasmo e ironia si è scrollata di dosso l’infamante etichetta di covo di fondamentalisti. A maggioranza sunnita, Tripoli si è distinta per le proteste a base di musica techno e party notturni in una delle piazze principali della bellissima città (che al contrario di Beirut non fu distrutta dalla guerra). Il dj che da uno dei balconi che affacciano sulla piazza ha scaldato gli animi in rivolta è diventato una sorta di celebrità. La centralità di Tripoli nelle proteste è dovuta al suo reddito medio pro-capite, il più basso in tutto il paese (e forse non è un caso che il fondamentalismo attecchisca proprio lì dove le condizioni di vita sono più dure). Nel frattempo la situazione economica libanese continua a deteriorare, sul mercato nero la lira è in caduta libera e le banche hanno imposto limiti sui prelievi. Chiudono negozi, i locali si sono svuotati e il compleanno di Gesù Cristo, che a Beirut è storicamente molto sentito, ha dovuto fare a meno di luci e addobbi colorati. Gli stipendi, alla fine di ogni mese, non sempre arrivano. Ha chiuso anche l’ultimo cinema d’essai che era rimasto, il primo posto in cui avevo messo piede dopo l’aeroporto quando venni qui per la prima volta nell’autunno del 2017, ignaro che la Storia avrebbe di lì a poco cambiato le carte in tavola, per sempre. Tra le luci della rivolta e le ombre della reazione. (giovanni vimercati)

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