
Lo stabilimento romano della Peroni a Tor Sapienza restituisce ancora oggi l’importanza e la centralità di una grande fabbrica. Sorto nei primi anni Settanta, rappresenta il cuore produttivo di un impero commerciale ramificato in tutto il mondo. Per chi si muove su via Collatina in direzione est, colpisce alla vista poiché è un’evidente eccezione, in un panorama dominato dalla deindustrializzazione e dall’abbandono di molti di quei capannoni che solo fino a vent’anni fa andavano a formare una delle aree industriali più produttive dell’Italia centro-meridionale.
La storia della birra Peroni è in qualche modo la storia di Roma, almeno per quanto riguarda l’ultimo secolo e mezzo. Arrivata nella capitale nel 1864, la Peroni attraverso investimenti e acquisizioni diventò ben presto una delle aziende più dinamiche, in piena espansione economica ed edilizia della città, mettendo radici inizialmente nel quartiere Salario, con la costruzione del grande complesso “liberty” nei pressi di porta Pia. Solo nel 1971 venne aperto il nuovo stabilimento, nella sede attuale. La fabbrica ha intrecciato i percorsi e i destini della classe operaia romana. Lotte, conquiste, mobilitazioni segnate da una grande combattività e da un’attenzione precoce ai temi della salute, della nocività e della sostenibilità, in continua relazione con il tessuto sociale della periferia romana, attento alla dignità del lavoro come alla qualità dei servizi sociali e delle lotte per la casa e per l’ambiente.
La vertenza, dura e vittoriosa, che i facchini che lavorano per lo stabilimento Peroni hanno messo in campo nell’ultimo mese si inserisce perfettamente in questa lunga storia. Assunti da una cooperativa esterna, la Masterjobs, hanno cominciato a manifestare inizialmente contro l’organizzazione del lavoro e della turnistica. Di fatto reclutati a chiamata, attraverso whatsapp e sms, i facchini erano del tutto ostaggi dei responsabili della cooperativa, che potevano disporre del loro lavoro ignorando i requisiti minimi in termini di istituti contrattuali.

Le proteste hanno alzato ancora una volta il velo sulle modalità di trattamento nel comparto della logistica, un settore in grande sviluppo negli ultimi anni nel quale le condizioni di ingaggio e di impiego sono altamente discrezionali, dominato dalle cooperative in appalto e subappalto e caratterizzato da mansioni rischiose e usuranti. E come ovunque, anche alla Peroni non è mancato il solito teatrino dello scaricabarile: l’azienda sostiene che ignora ciò che combina la cooperativa in appalto e si spinge ad auspicare un esito positivo della vertenza. Anche a Roma però viene rapidamente fuori l’altra faccia della medaglia: si fa avanti una nuova generazione molto combattiva di militanti sindacali, giovani, spesso di origine straniera e per lo più legati al sindacalismo di base. Alla Peroni, la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata il licenziamento in blocco degli operai che avevano scelto di sindacalizzarsi pochi mesi prima. Questo ha determinato l’inizio di un lungo sciopero, proclamato dal SiCobas, accompagnato da un presidio nei pressi dell’ingresso dello stabilimento. Ovviamente un licenziamento politico nel 2020 non ha le sembianze che poteva avere nella Fiat del 1980 o degli anni Cinquanta. Semplicemente, la cooperativa ha deciso di mandare in mobilità in blocco solo i facchini iscritti al sindacato, scatenando quindi una protesta ancora più dura.
Al contrario di altre vertenze del settore, dove la collocazione geografica estremamente periferica delle proteste ha rappresentato una difficoltà aggiuntiva alla mobilitazione, nel caso della Peroni la localizzazione della mobilitazione ha permesso di aggiungere una marcia in più alla battaglia. Dopo i primi giorni più difficili, gli operai hanno iniziato a ricevere le visite di delegazioni del movimento di lotta per la casa, di singoli rappresentanti politici, di abitanti del territorio, fino a organizzare per sabato 29 febbraio una manifestazione che ha attraversato Tor Sapienza e si è conclusa di fronte ai cancelli della fabbrica. Il legame tra il territorio e i lavoratori è d’altra parte strettissimo: molti di loro vivono dentro le occupazioni a scopo abitativo poste tra via Collatina e via Prenestina.
La mattina di lunedì 9 marzo i blocchi ai camion in entrata e uscita dalla fabbrica si fanno più intensi: il SiCobas annuncia una ulteriore radicalizzazione della protesta. Nel giro di qualche ora arriva la notizia: tutte le rivendicazioni vengono accettate. I lavoratori esclusi possono rientrare al lavoro, la cooperativa si impegna a rispettare integralmente il contratto nazionale della logistica, i turni saranno regolari e uguali per tutti, e c’è un riconoscimento di mansione per i più anziani. La soddisfazione è grande. In una città paralizzata dalla paura dell’epidemia, un gruppo di lavoratori vince una battaglia importante, alla faccia di tutti i luoghi comuni imperanti sulla rassegnazione dei lavoratori e delle lavoratrici e sulla funzione a ribasso che avrebbero gli immigrati stranieri nel mercato del lavoro. Naturalmente occorrerà vigilare sul rispetto dell’accordo pattuito, come ricordano i sindacalisti. Ma il risultato raggiunto è molto importante. (michele colucci)