L’architetto Eyal Weizman ha pubblicato nel 2008 un testo intitolato À travers les murs. L’architecture de la nouvelle guerre urbaine, uno studio sul ruolo dell’architettura nelle tattiche militari utilizzate da Israele durante la seconda Intifada nei territori e nelle città palestinesi. Il cuore della sua analisi è rappresentato dal concetto di “spaziocidio” – titolo di un altro suo saggio – che rimanda a un uso dello spazio, dell’ambiente e dell’architettura come strumenti per annientare il nemico. Molte delle osservazioni dell’autore si basano sull’analisi delle tattiche e dei discorsi dei generali israeliani Kochavi e Hirsch, responsabili dei fallimenti militari nel 2006 rispettivamente a Gaza e in Libano.
Kochavi, dopo un’offensiva a Gaza da lui coordinata, che aveva causato centinaia di vittime civili e distrutto varie infrastrutture, aveva riassunto il principio della sua strategia con queste parole: “Il nostro obiettivo è quello di creare confusione dal lato palestinese, di saltare da un ambiente all’altro, di lasciare all’improvviso una zona, e poi di tornarci… Sfrutteremo tutti i vantaggi propri del ‘raid’ piuttosto che dell’occupazione”.
La stessa strategia veniva privilegiata da Hirsch, come si legge da alcune istruzioni date ai suoi soldati: “Le forze devono realizzare un’infiltrazione su larga scala per un raid che non lasci traccia; stabilirsi rapidamente sulle zone di controllo, poi creare un contatto letale con le aree costruite (‘sciame’), suscitare un effetto di shock e stupore capace di paralizzare ogni tipo di intervento, poi passare alla modalità della dominazione, parallelamente a una decostruzione sistemico-spaziale dell’infrastruttura nemica (occupazione)”.
Nonostante i discorsi dei due generali siano stati criticati anche in seno all’esercito israeliano per il loro intellettualismo e gergo astratto, la teoria militare che esprimono può aiutarci a cogliere le sfumature di alcuni fatti recenti.
Sono passati nove mesi dal tentativo di sfratto dell’8 febbraio scorso che ha visto coinvolti gli abitanti di una palazzina di proprietà dell’Asl al Frullone, nell’area nord di Napoli. Qui vivono dagli anni Ottanta nove famiglie, per un totale di una quarantina di persone. Sono assegnatarie di alloggi popolari nelle vecchie graduatorie di edilizia residenziale pubblica, ma non hanno mai ricevuto la casa e nel frattempo sono state riconosciute dal Comune come occupanti. La direzione generale dell’Asl con a capo Ciro Verdoliva intende rientrare in possesso dell’edificio, all’interno di un ex manicomio, e ha avviato la procedura di sfratto. Dopo una serie di rinvii, l’8 febbraio scorso sono arrivati gli avvocati di Verdoliva, assistiti da forze di polizia, agenti antisommossa e pompieri, ma gli abitanti sono riusciti a barricarsi all’interno del palazzo e dopo lunghe ore di tensione, hanno ottenuto l’apertura di una trattativa con il Comune e un nuovo rinvio.
In questi nove mesi, la vertenza è stata scandita da continui rimandi, silenzi e rimpalli istituzionali. Il Comune ha provato a scaricare le responsabilità sulla Regione e viceversa. Ogni comunicazione è stata concessa dai piani alti solo dopo lunghi presidi degli abitanti davanti alle sedi istituzionali, e in una di queste occasioni la vicesindaca Laura Lieto non ha nemmeno accolto i propri interlocutori a palazzo San Giacomo, ma li ha incontrati sulla soglia, congedandoli dopo vaghe promesse.
Di queste promesse, quella ricorrente riguarda degli appartamenti (a volte sono cinque, a volte sono sei) che potrebbero essere assegnati a una parte delle famiglie con affitti calmierati, ma non si ha alcuna notizia certa o comunicazione ufficiale di questo impegno, e non si sa nemmeno esattamente dove si trovino questi appartamenti, né a quanto ammonterebbe il fitto.
Quando torno al Frullone è appena cominciato novembre, il mese in cui le case promesse prima dell’estate dovrebbero essere pronte. Una delle abitanti mi racconta: «Ci sentiamo presi in giro perché il Comune non fa altro che rimandare. La vicesindaca ci aveva assicurato che entro il 20 novembre gli alloggi sarebbero stati pronti e loro avrebbero fatto le graduatorie per assegnarne cinque o sei, ma da quello che sappiamo i lavori in queste case non sono nemmeno cominciati. Tra l’altro, non sono soluzioni definitive. Si tratta di contratti di massimo di tre anni. Io tra tre anni ne avrò 63, e mi trovo di nuovo con lo stesso problema, come faccio? Nel frattempo qui niente cambia, ma l’Asl non aspetta».
L’Asl ha infatti affinato la sua strategia per rendere la quotidianità degli abitanti del Frullone sempre più difficile. Mentre continuano ad arrivare i nuovi avvisi di sfratto, seguiti da continui rinvii, l’architettura della palazzina è diventata uno strumento nelle mani di Verdoliva, capace di soffocare e accerchiare i suoi abitanti. Già a febbraio Verdoliva aveva scientemente utilizzato lo spazio per indebolire materialmente e simbolicamente la capacità di resistenza degli abitanti. Durante una notte era infatti apparso un nuovo muro nell’androne del palazzo, che ne dimezzava la capienza; e immediatamente dopo la resistenza dell’8 febbraio, il cancello che aveva reso possibile agli abitanti chiudere l’accesso alle loro case e barricarsi, era stato tirato giù dai suoi operai. Nei mesi successivi questo tipo di interventi non sono diminuiti. Racconta una abitante: «Dopo il tentativo di sfratto le cose sono precipitate. Dopo averci tolto il cancello d’ingresso del palazzo, Verdoliva ha accerchiato con delle transenne l’entrata impedendoci di usarla e ha aperto un nuovo piccolissimo varco nel muro. Da quel momento entriamo da lì, ma è un’apertura fatta all’improvviso nella parete, e anche qui non c’è il cancello quindi il palazzo è completamente aperto. Sempre da febbraio ha staccato la corrente dalle scale, quindi entriamo e usciamo con le torce del telefono accese. Capisci che se succede qualcosa di notte ai bambini ci facciamo male? Sono mesi che stiamo così».
Oltre ad aver agito direttamente sulla palazzina, le strategie intimidatorie dell’Asl hanno riguardato anche l’ambiente circostante, quella che il generale Hircsh nei suoi appunti chiama “infrastruttura nemica”. Un altro abitante racconta: «Il postino ha detto che non lo fanno più entrare a portare la posta ed è ormai da febbraio che non riceviamo più niente. I bimbi piccoli fanno i documenti e non ci arrivano. Con l’auto non possiamo più entrare dall’ingresso principale, dobbiamo fare tutto un giro passando da via Toscanella, prenderci il traffico ed entrare da dietro. Prima potevamo entrare da entrambi gli ingressi, invece ora dall’ingresso principale possono entrare tutti tranne noi. Fino a poco fa, sempre con la scusa dei lavori, per arrivare dal palazzo alle macchine ci aveva lasciato un corridoio stretto tra pannelli e transenne. Sembrava di stare in carcere. E un’altra cosa strana, ad agosto il mio furgone è andato a fuoco. Era parcheggiato qua sotto, me l’aveva appena fatto spostare davanti all’accesso del palazzo. Quando ha bruciato, tutto il fumo è entrato fin dentro le case e volevamo capire come fosse successo ma la polizia ci ha risposto che le videocamere non funzionano».
In un continuo rimpallo di responsabilità, intervallate da intimidazioni, violenza spaziale e accerchiamento, lo sfratto diventa un’operazione che si dilata nel tempo. Non consiste solo in un rapporto di forza che si manifesta in un preciso momento e attraverso un’azione in cui sono riconoscibili gli schieramenti e le rispettive capacità di attaccare e di difendersi. In questo caso diventa una condizione esistenziale a cui si aggiungono progressivamente nuovi dettagli, un “essere sotto sfratto” che perdura nel tempo. Oltre allo spazio anche il tempo diventa un’arma e il non essere a conoscenza di quanto questa condizione potrebbe durare lascia gli abitanti nell’angoscia. Al contempo, in ogni momento potrebbe sopraggiungere una nuova intimidazione, un muro potrebbe essere costruito e un altro distrutto, mentre gli ufficiali giudiziari entrano ed escono liberamente per notificare nuovi avvisi di sfratto che non si sa bene cosa significhino.
L’obiettivo sotteso degli enti proprietari, e istituzionali, è che sempre di più gli abitanti cerchino delle soluzioni per andarsene, scontrandosi con gli ostacoli del libero mercato immobiliare, come riporta sempre uno di loro: «Io amo casa mia, ma me ne sarei già andato. Avevo visto una casa a Chiaiano come piaceva a me. Quattrocentocinquanta euro al mese, ma volevano due buste paga. Noi non ce le abbiamo, e siamo dovuti rimanere qua sopra».
Altre palazzine occupate nei quartieri periferici della città stanno subendo la stessa sorte. È il caso dell’ex motel Agip, un’occupazione abitativa a Secondigliano, sempre nella periferia nord di Napoli. Qui vivono da più di vent’anni diverse famiglie, oggi trentacinque, che hanno ricevuto un primo avviso di sfratto quest’estate e un secondo avviso nel giro di un mese, minacciate di vedersi mandare via alla presenza degli assistenti sociali se non avessero lasciato l’edificio pacificamente.
Anche qui, immediatamente dopo l’avviso è stata aperta una trattativa con il Comune che ha subito fatto un passo indietro e tutto sembra essersi rallentato. Ma il tempo che rimane non è che un’attesa, un tempo dell’ignoto che viene scandito da intimidazioni e incertezze.
In un altro passaggio del suo libro, Weizman descrive la cornice all’interno della quale collocare lo spazio e – aggiungiamo – il tempo come strumenti di dominio: “Uno dei principali obiettivi delle nuove tattiche mira a emancipare Israele dalla necessità di una presenza fisica nei territori palestinesi, mantenendo al contempo un controllo securitario. Si tratta di un paradigma che si sforza di rimpiazzare la presenza nelle zone occupate con la capacità di spostarsi all’interno di queste zone, con l’obiettivo di produrre gli stessi effetti di attacchi aerei o incursioni, che stremano il nemico psicologicamente e nella sua organizzazione. Queste tattiche servono a sostituire la vecchia dominazione territoriale con un nuovo modo deterritorializzato, l’occupazione a scomparsa”. (barbara russo)