
L’esplosione della cosiddetta platform economy è un dato di fatto che la pandemia ha contribuito ad accelerare e articolare. Una forma di riproduzione capitalistica governata da imprese che integrano, a un livello esasperato, l’online con l’onlife, la dimensione reale con quella virtuale, scavalcando una serie di tradizionali processi produttivi e commerciali e, al contempo, introducendo nuove mediazioni, che investono il complesso fronte della logistica integrata. Glovo e Amazon, Uber Eats e Alphabet, Facebook e Deliveroo: non solamente grandi imprese, ma aziende che “socializzano” un nuovo modello produttivo, contrassegnato da alcuni caratteri definiti: il delivery (ovvero la consegna a domicilio) come rapporto commerciale che abolisce lo spazio fisico d’esposizione; il just in time radicale, che – anche qui – abolisce il concetto stesso di scorte commerciali, di magazzino, e dunque di spazio e di personale lavorativo correlato; lo sharing – la “condivisione” – come impalcatura ideologica necessaria. Tutto questo, nell’atto stesso di distruggere relazioni produttive divenute “vecchie”, ne introduce di nuove, o meglio, le diffonde a un livello mai raggiunto prima. La logistica integrata, che va dal cargo oceanico al tir autostradale, dal furgone cittadino al rider di quartiere, tracima nello spazio urbano, piegandolo ai suoi bisogni. Una dinamica che, tra l’altro, investe frontalmente i flussi di mobilità urbani, cambiandone la quantità e la qualità.
Se a livello macro-urbano la quantità di questi flussi appare invariata, o comunque non percettibile nel suo mutamento, a livello infra-cittadino le cose cambiano. L’economia delle consegne a domicilio sembra incidere su di un particolare tipo di flussi, che possono essere definiti “di prossimità”: la mobilità di quartiere, quella collegata direttamente alla propria residenza o al proprio lavoro. Il modello delivery, allargandosi a settori fino a poco tempo fa inusuali – per esempio fare la spesa al supermercato, pranzare o cenare al ristorante o in trattoria, comprare il giornale –, influenza e riduce il passaggio necessario e al tempo stesso casuale nello spazio inerente alla propria abitazione o al proprio lavoro. Detto altrimenti: l’economia delle piattaforme influenza direttamente la mobilità dei territori di prossimità.
Una recente ricerca che ho condotto nel quartiere San Lorenzo di Roma insieme a Luca Alteri sembra confermare questo dato. Il quartiere universitario è un punto di vista privilegiato per studiare la città “contesa”: quella al confine tra valorizzazione privatistica e periferizzazione sociale, e in questi ultimi decenni investita dai processi di gentrificazione. Nel corso degli ultimi vent’anni San Lorenzo ha accelerato il suo contraddittorio mutamento: la trasformazione da quartiere popolare a studentesco ha portato con sé dapprima una malgovernata crescita economica e sociale nel primo decennio del secolo; successivamente tutta la zona ha sofferto della mancanza di investimenti privati seguita alla crisi del 2008; a quel punto – complice anche la progressiva ritirata dell’intervento pubblico – è subentrata una crisi che ne ha spezzato le possibilità di sviluppo. Fino allo scoppio della pandemia, che ne sta accelerando il decadimento.
Prima del confinamento anti-pandemico, le numerose attività di ristorazione del quartiere aprivano a pranzo e cena, sovente senza sospendere l’attività tra i due momenti. San Lorenzo, in effetti, presenta un’evidente monocoltura commerciale: la grande maggioranza delle attività economiche è legata alla produzione o distribuzione di cibo e bevande (più di duecento attività sulle circa seicento complessive). Bar, pub, ristoranti, paninerie, piccoli alimentari gestiti da migranti divenuti nel corso degli anni bar mascherati: tutto, o quasi, a San Lorenzo sembra rispondere a un’unica esigenza: consumare cibo e alcol, soprattutto nelle ore notturne. La riduzione del passaggio collegato al lavoro o allo studio (in primo luogo la chiusura dovuta alla pandemia della vicina università della Sapienza) ha comportato la chiusura di tali attività. Alla riapertura, il tempo “sospeso” non si è però rivelato tale: più che di sospensione, si è trattato di un salto qualitativo nella gestione commerciale. L’uso intensivo di smart working e didattica a distanza ha ridotto strutturalmente il passaggio di quartiere. Quel passaggio che abbiamo definito necessario e al tempo stesso casuale, perché foriero di incontri e di cambi di programma, di tentazioni all’acquisto, di percorsi alternativi e di conseguenti stimoli indotti, per esempio prendere un caffè al bar nel tratto di strada tra l’abitazione e l’obiettivo dello spostamento, dare uno sguardo al mercatino, scambiare due chiacchiere con l’edicolante o pagare una bolletta alle Poste. Inizialmente, le attività di ristorazione hanno riaperto solo a cena: la forzata domiciliazione lavorativa aveva annullato il bisogno di alimentarsi fuori casa per la maggior parte del ceto impiegatizio. Poi hanno riaperto anche a pranzo, ma in forma diversa: veniva aperta la cucina ma chiusa la sala, lavorando unicamente per le consegne a domicilio di chi, tramite applicazione sullo smartphone, ordinava il pasto al ristorante. Davanti all’ingresso dei ristoranti si è andata così affollando una varia umanità di rider in attesa della chiamata. Servitori, come l’Arlecchino goldoniano, di due padroni: della piattaforma online e del ristorante, da cui attendono il pacco con dentro il cibo cucinato pronto per la consegna. La disintermediazione di una figura lavorativa – in questo caso, il cameriere di sala – ne ha introdotta un’altra, anzi, molte altre (e tutte a scarsissimo valore aggiunto e ad altissimo tasso di sfruttamento): quella dei rider che in motorino, bicicletta o monopattino sfrecciano lungo le vie del quartiere, controllati dal gps che risponde ad algoritmi che, a loro volta, stabiliscono i livelli di produttività a cui conformarsi. Oppure, ancora: la progressiva riduzione dello spazio fisico eccedente la cucina (la sala-ristorante coi tavoli o il bancone) impone al contempo la necessità di più spazio destinato all’uso cucina (più cucine per una clientela potenzialmente più vasta della propria sala).
Nel frattempo questa evoluzione, ancora tutto sommato fisiologica, ha portato alla formazione di nuove attività commerciali, per esempio le cosiddette “ghost kitchen”: cucine che non hanno più bisogno di una sala con dei tavoli, insomma di altro spazio fisico che non sia la cucina stessa, rivolta a questo punto unicamente al mercato del delivery. Per adesso costituiscono una minoranza, ma già è possibile intravederne l’evoluzione: le piattaforme che, tramite app, si appoggiano a un fornitore terzo, sia esso ristorante o ghost kitchen, potrebbero essere sempre più portate a svincolarsi dal ruolo di “semplici” intermediari, per divenire direttamente produttori del cibo di cui poi s’incaricheranno di gestire la consegna. È difficile che Amazon possa fare da sé nella scrittura di un libro, ma se l’oggetto da consegnare è un pasto è possibile che l’Uber Eats di turno possa pensare di produrlo in house, a quel punto stravolgendo il panorama della ristorazione (nonché i propri margini di profitto). Ma il punto che qui vorremmo evidenziare è un altro rispetto alle pur decisive evoluzioni produttive e commerciali innescate dalle piattaforme economiche. Il fenomeno raccontato incide infatti direttamente sui flussi di mobilità. Se tutto o quasi diventa ordinabile da casa, comodamente seduti sul divano, a ridursi è la necessità di uscire di casa, contribuendo a limitare quel passaggio che rende vivo un territorio. Un territorio che vedrà sempre più la presenza in strada di lavoratori della logistica e sempre meno cittadini del quartiere. Un quartiere dalla mobilità funzionalizzata. I flussi forse non vedranno un cambiamento quantitativo, ma la qualità di questi ne verrà segnata. Anche un livello minimo basta per mutare il paesaggio commerciale di un quartiere, in parte riducendolo, in parte cambiandolo di segno. L’economia delle piattaforme si presenta così in diretta contrapposizione con l’economia di contesto, che non va confusa con l’economia “locale”. L’economia di contesto è una dimensione che, sebbene anch’essa di fatto globalizzata, conserva legami con il territorio inerente. Un supermercato, per esempio, può appartenere a una grande catena commerciale internazionale, e allo stesso tempo generare lavoro sul territorio e risponderne nelle sue evoluzioni commerciali, a seconda del livello dei flussi della clientela. Ma la consegna di beni e servizi in modalità delivery come incide sull’economia del territorio, se questi beni e servizi vengono prodotti altrove e consegnati da lavoratori non residenti nel territorio stesso? Come si andrà adeguando il paesaggio commerciale a questa mobilità funzionale, animata principalmente da lavoratori impiegati nel settore delle consegne a domicilio?
Le questioni sono aperte e non giustificano risposte in senso univoco. Eppure il fenomeno in questione rischia di approfondire una crisi demografica che San Lorenzo condivide con il resto della città consolidata, e questa con il resto delle metropoli europee: lo spopolamento progressivo dei quartieri “contesi” e il dislocamento (forzato) della popolazione verso i bordi sempre più esterni della città. San Lorenzo, popolato alla fine degli anni Cinquanta da circa trentacinquemila residenti, ha oggi una popolazione di neanche novemila abitanti. Come ci ha raccontato uno storico residente e ristoratore del quartiere: «Quando andavo a scuola io, stavo alla sezione F, e si arrivava alla sezione H. L’altro giorno è venuta a mangiare una professoressa e mi diceva che adesso le sezioni sono due, A e B. Se San Lorenzo è fatta da case per studenti e da Airbnb non c’è futuro, puoi migliorare la sera, puoi migliorare la movida, ma come quartiere non esiste. Allora, o lo ripopoli o niente».
È l’immagine frequente delle tante San Lorenzo di cui si compone la città moderna. Roma ha una popolazione statica da circa un cinquantennio, eppure questa staticità complessiva non restituisce pienamente il senso dei flussi di popolazione infra-urbani: da decenni la periferia posta a ridosso del Raccordo anulare vede una continua espansione, territoriale e demografica, a fronte di uno spopolamento della città storica, quella formata tra XIX e prima metà del XX secolo. Un fenomeno che segue la storia gentrificatoria cittadina: prima i rioni storici, da Monti a Trastevere; poi i quartieri a ridosso delle mura antiche, come Testaccio; successivamente la prima cintura periferica, da San Lorenzo al Pigneto a Garbatella–Ostiense; oggi Centocelle o il Quadraro. Tutti rioni o quartieri che hanno subito un drastico flusso in uscita di residenti. Appare chiara la relazione tra gentrificazione e spopolamento. L’espansione della funzionalizzazione logistica di determinati quartieri può rafforzare questa dinamica, ed è allora su questo piano che l’amministrazione pubblica potrebbe intervenire. Se resistere all’azione dirompente delle piattaforme appare impraticabile per i poteri comunali (e forse neanche giusto), la possibilità di continuare a vivere nel quartiere di residenza rientra in quei diritti di cittadinanza che possono essere garantiti anche dagli insteriliti poteri municipali. Di qui passa la natura democratica o meno di qualsiasi ipotesi di progettazione urbana “responsabile”. (alessandro barile)