
Il Festival Pier è una stazione di sosta per i battelli che fanno trasporto fluviale sul Tamigi. Si trova alla destra del Waterloo Bridge, a un tiro di schioppo dalla Royal Festival Hall e dal National Film Theatre. Praticamente il centro di Londra. È una notte di settembre, umida come solo le notti a nord della Manica sanno essere. Verso le dieci di sera ci sono già una cinquantina di persone in prossimità delle scale che scendono al fiume. Tutti hanno probabilmente ricevuto lo stesso sms che ho ricevuto anch’io qualche ora fa: Tonite Core’n’bass Party. Bangin’ Line Up! Meet at Festival Pier 10pm – Support is Needed! Keep Off Internet! Nel 2016 un rave al centro di Londra è una cosa inusuale come una giraffa fuggita dallo zoo. Tutti aspettano, e aspetto anch’io.
Dopo mezz’ora arrivano una decina di ragazzi e ragazze che trasportano a mano delle casse amplificate, un generatore a gasolio e una consolle. Con l’aiuto di tutti si porta l’attrezzatura giù per le scale: dove c’erano le acque scure del Tamigi la bassa marea ha lasciato una striscia di spiaggia larga una quindicina di metri. In pochi minuti è tutto montato. Poco dopo arrivano altre casse, questa volta di birra; a seguire un paio di subwoofer e un po’ di faretti colorati. Per ultimo arriva un gonfiabile a compressione, di quelli che si vedono fuori dai centri commerciali. Quando il grosso tentacolo verde inizia a dibattersi verso il cielo parte anche la musica, e si può dire che la festa è ufficialmente iniziata.
Qualche settimana fa ha chiuso il Fabric, storico locale londinese. Il giorno dopo, in una intervista rimbalzata su diversi siti di musica elettronica, il fantomatico rappresentante di una improbabile organizzazione di raver annunciava per il weekend centosettanta party illegali di protesta a Londra e dintorni. La notizia, probabilmente fasulla, ha prodotto nei giorni successivi una serie di articoli da parte di quotidiani, tabloid e stampa musicale in cui si temeva o si invocava la rinascita dei free party in risposta all’inarrestabile processo di silenziamento delle notti londinesi. Dubito che stanotte siamo venuti a far festa sotto al ponte del Festival Pier per protestare contro la chiusura del Fabric; ma mi chiedo comunque se la cosa sia plausibile. Al Fabric il guardaroba costava otto pound, e all’ingresso spesso e volentieri c’erano i cani antidroga: insomma, non propriamente un club underground. Organizzare party illegali in risposta alla chiusura di un tempio dell’elettronica mainstream?
Verso l’una di notte al rave ci sono almeno duecento persone. In maggioranza siamo bianchi: britannici, est-europei e gli immancabili italiani. L’età media è giovane, l’atmosfera cordiale e allegra. Niente gente che ruzzola nel proprio vomito, niente mercatino della droga a cielo aperto: rispetto a un rave italiano questa sembra una grossa festa di compleanno. La crew del sound system è composta da inglesi e polacchi; al bar si vende Red Stripe calda a due pound e acqua a cinquanta pence. I dj continuano ad alternarsi in una sorta di back to back, con un paio di dischi a testa e risultati non proprio felici. Incerta tra breakbeat, jungle e un po’ di techno la musica non decolla mai, e dopo un po’ passa decisamente in secondo piano. La gente passeggia sulla sponda del Tamigi, alcune ragazze si tolgono le scarpe; qualcuno si siede nella sabbia umida affondandoci le mani come se stesse al mare. L’attrattiva principale della festa non è certo la musica.
Mentre ciondolo con una Red Stripe in mano mi rendo conto che è la prima volta nell’ultimo mese che ascolto musica, bevo birra e fumo una sigaretta contemporaneamente. Inoltre non sono stato perquisito, non ho pagato e non c’è nessuno che mi dica cosa fare. Per quanto strano possa apparire, la somma di questi fattori circoscrive due spazi ben delimitati: quello ordinario e privato della sfera domestica, e quello straordinario e collettivo dell’illegalità. Dal pub al club, l’intrattenimento musicale della capitale è regolato da una serie di norme molto rigide. Corpi e suoni, tempi e spazi sono disciplinati in modo capillare. Tutto necessita di una approvazione formale, tutto deve essere conforme a uno standard. Per i corpi ci sono gli addetti alla sicurezza, per i suoni l’orecchio elettronico del misuratore di decibel. Per il tempo e lo spazio ci sono le licenze, che vengono ritirate con estrema facilità; pertanto la regola non conosce eccezione. Alla porta, perquisizione e documenti. All’interno non si fuma, all’esterno non si beve. Alla toilette c’è un tizio che con la scusa di allungarti il sapone per le mani controlla quanto ti trattieni al cesso. Non c’è tempo per un ultimo disco, nè per stringere le mani al dj. Please, leave the premises now. Accompagnata da una sigaretta di tabacco e dalla scarsa abilità dei dj, la mia birra calda si carica a un tratto di un esaltante sapore di libertà.
Verso le due di notte inizia ad arrivare la polizia. Prima sono cinque, poi dieci, uomini e donne. Stazionano sulla strada e guardano giù. Quando diventano venti qualcuno ci va a parlare; qualcun altro inizia a raccogliere le poche lattine vuote abbandonate sulla spiaggia, e il barattolo con l’incasso del bar sparisce dal tavolo. Tuttavia non succede nulla. La polizia non scende in spiaggia, e neanche chiede di spegnere la musica. Mi chiedo come mai, e la risposta che raccolgo in giro è suggestiva. La festa si svolge su una striscia di spiaggia che poche ore fa era Tamigi, e l’area del Tamigi è fuori dalla giurisdizione della Metropolitan Police. Il corpo designato all’intervento, la River Police, non si prende la briga di venire fin qua con i battelli perché sa bene che la marea durerà solo qualche ora. A sgomberare la festa prima dell’alba sarà dunque il Tamigi stesso.
Il buco nella rete di cui parlava Hakim Bey si è aperto questa volta al centro di Londra: e non c’è stato neanche bisogno di strappare. Non posso fare a meno di pensare che la benevolenza delle forze dell’ordine dipenda, oltre che dall’applicazione del protocollo Health & Safety che bilancia rischi e risultati di ogni azione, anche dalla composizione etnica della festa. Nella multiculturale Londra del XXI secolo la linea del colore si vede benissimo, e volendo si può anche ascoltare. Se sotto al ponte ci fossero stati duecento neri con i cappucci in testa ad ascoltare grime, temo che il protocollo sarebbe stato applicato con risultati molto diversi.
Quando lascio la festa è ancora buio. Una dj dai tratti orientali ha fatto la sua comparsa in consolle, scarsa come quelli che l’hanno preceduta. Dal tavolo del bar afferro un volantino. Il Passing Clouds, storico club multiculturale di East London, è stato chiuso per far posto ad appartamenti di lusso, e sabato prossimo c’è una manifestazione in sua difesa. Una marcia di protesta contro la chiusura di un club pubblicizzata durante un rave party? Nella Londra del 2016 anche questo è plausibile. Mi sa che a breve la questione non sarà più ballare gratis o ballare pagando, ma ballare tout court; e la portata inedita dell’attacco sembra catalizzare nuove e trasversali alleanze. Le insormontabili barriere ideologiche che in Italia ancora dividono spazio sociale e spazio commerciale, occupazione e delibera comunale, comodato d’uso e associazione, viste da qui sembrano i fossili di un’altra era politica. Intanto sulla strada gli sbirri sono diventati almeno una cinquantina. Sorridono come se fossero di servizio per i turisti a Piccadilly, e uno di loro mi offre persino il braccio per aiutarmi a scavalcare il muretto. No sir. Thank you, sir. Ce la faccio ancora da solo. (brian d’aquino)