Sarà presentato giovedì 28 ottobre (ore 18,00) alla libreria Spazio (via Spallanzani, 19) di Milano, L’estate è finita. Racconto corale del litorale domizio, libro di Salvatore Porcaro. Con l’autore discuteranno del volume Maria Pace Ottieri e Alberto Saibene.
Proponiamo a seguire una delle storie raccontate nel libro.
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MARY OSEI
Quando vidi per la prima volta Mary Osei, in occasione dell’anniversario della strage di Castel Volturno, rimasi colpito dal suo volto, luminoso e intenso, e dalle parole che disse, profonde e sentite. Qualche giorno dopo andai a trovarla insieme a Sara Pellegrini, con la quale condividevo la ricerca in quel periodo. Mary, originaria del Ghana, viveva con le sue tre figlie in una villetta a due piani, poco distante dal Centro Fernandes e proprio acanto alla casa Comboniana fondata da padre Giorgio Poletti. Ci accolse con un ampio sorriso, come fece in seguito tutte le volte che andai a trovarla, e con orgoglio ci mostrò il centro culturale che aveva da poco inaugurato e dedicato alla cantante sudafricana Miriam Makeba, morta a Castel Volturno nel 2008.
Nella prima stanza in cui entrammo c’era un piccolo museo etnografico con tanti oggetti che Mary aveva raccolto e ordinato per raccontare la cultura africana. Di fronte c’era un’altra stanza con tavoli e sedie, dove erano esposti alle pareti dei quadri da lei realizzati. C’era poi uno spazio dedicato ai libri, una stanza per i computer e un’ampia cucina. Dovunque si guardava si percepiva che quel luogo era il frutto di un sogno a lungo coltivato, diventato realtà grazie alla determinazione e all’amore che Mary aveva per la vita, anche quando questa è sofferta e difficile come lo era stata la sua.
Dopo quell’incontro tornai da Mary a portarle il giornale dove avevamo pubblicato la sua storia. Quando vide che a fianco al racconto c’era il ritratto di Miriam Makeba fu molto contenta e orgogliosa. Tornai altre volte, spesso solo per un saluto veloce o forse solo per rassicurarmi che quel luogo aperto e pubblico fosse ancora al suo posto. Parlammo di realizzare un progetto insieme coinvolgendo le seconde generazioni che frequentavano assiduamente il centro, ma non se ne fece mai nulla. Un giorno ricevetti una telefonata dal numero di Mary: non risposi, non ricordo perché, e non richiamai, sicuro che sarei andato a trovarla presto. Seppi poi che Mary era morta a causa di un tumore, che il centro era stato chiuso e che le figlie si erano trasferite altrove.
«L’inizio, a Roma, è stato difficile. Era il 1976. Non c’era altro lavoro se non quello domestico. Bisognava vivere sul posto di lavoro. Eri peggio di una schiava, lavoravi tanto e ti pagavano poco. Ho lavorato per due-tre famiglie. L’ultima era una coppia di medici con due figli. Avevano una casa grande e io facevo tutto, cucinavo, pulivo, stiravo. Alla fine anche loro hanno capito che era troppo e mi hanno chiesto se conoscevo un’altra ragazza che potesse aiutarmi. Ho trovato una paesana amica mia, l’ho portata da loro, lei faceva le pulizie e io cucinavo, tutto era più semplice. Dormivamo lì, avevamo una stanzetta solo per noi. Il giovedì pomeriggio era libero, uscivamo alle quattro e dovevamo tornare a casa alle otto. Quattro ore a settimana. Quattro ore! Dove potevamo andare? Andavamo alla stazione Termini a camminare, a fare un po’ di giretti, incontravamo altre persone che facevano il lavoro domestico come noi.
«Sono rimasta a Roma per otto anni. Dopo ho vissuto a Milano e a Brescia. A Milano avevo un’amica e anche lì ho fatto un po’ di lavoro domestico. Poi ho incontrato una signora spagnola che faceva l’impresaria, e parlando con lei è uscito fuori che nel mio paese avevo studiato un po’ di teatro: “Ah sì? Allora ti posso prendere nello spettacolo”. Ho pensato che stava scherzando, invece un giorno mi ha chiamato: “Vieni a casa mia”. Sono andata. “Prova questo costume, vedi se ti sta bene. Tu non puoi fare la domestica, tu sai recitare, sai ballare”. Mi ha fatto frequentare una specie di scuola e pian piano mi ha inserita nel mondo dello spettacolo. Ho girato un po’. Insieme ad altre due ragazze africane facevamo danza tradizionale. Ma poi dal teatro siamo passate ai locali notturni. “No, questa non è una vita fatta per me, seduti a bere dalla sera fino all’alba”. Mi faceva paura, vedevo strani personaggi, gentaccia proprio. E le ragazze, le table artist, non facevano altro che stare con le persone a bere per prendere una percentuale. È possibile che una sceglie un lavoro in cui si beve solo per prendere lo stipendio? Sei mesi e ho smesso. Sono tornata a Roma, ho ripreso il lavoro domestico. Ho conosciuto un gruppo musicale e ho iniziato a cantare con loro. Ci chiamavamo Revelation e facevamo musica africana. Eravamo in sei, due dello Zaire, uno del Camerun, uno del Mali, uno del Senegal e poi io. Tutti facevamo il lavoro domestico e ogni sabato sera andavamo a suonare in un locale. Eravamo una novità, in Italia non c’erano tanti gruppi di colore. A volte ci chiamavano non perché gli piaceva la nostra musica, ma solo per la curiosità. È stata una bella esperienza.
«Poi da Roma sono venuta a Napoli. A Castel Volturno c’era la mia amichetta Rita. Non so come c’era finita, lei prima stava a Napoli e nel 1984 si era spostata a Castel Volturno. Quando sono arrivata mi piaceva molto. A Roma c’era troppo caos, qui mi trovavo bene, era tranquillo, era bello. Gli africani erano pochi. Vivevano bene, lavoravano tutti. Alcuni non pagavano neanche l’affitto perché le case gliele davano gratis – questo fino all’86-87. I proprietari venivano in vacanza e quando andavano via, dopo l’estate, lasciavano la casa a loro. Li cercavano sulla strada: “Tu ce l’hai casa? No? Vieni, vieni con me. Tu stai qua, la guardi e la tieni pulita”. E così nessuno pagava niente.
«Quando sono venuta qui, quasi subito ho conosciuto un ragazzo del Ghana che veniva da un villaggio non lontano dal mio. Era stato investito da un camion che gli aveva rotto tutte e due le gambe. Aveva ferri dappertutto e non riusciva a camminare. Abitava con altre persone, ma la mattina, dopo avergli preparato qualcosa, tutti andavano a lavorare e lo lasciavano solo. Quando l’ho visto ho avuto molta pietà. Ho lasciato Rita e sono andata a stare da loro. Cucinavo per lui, lo aiutavo a cambiarsi, ad andare in bagno. Dopo otto mesi, quando ho visto che riusciva a camminare con le stampelle, mi sono detta: “Va bene, ora potrei tornare a Roma”. Ma avevo speso tutto il tempo vicino a lui, non avevo più soldi e a Roma non avevo una casa. Così sono rimasta a Castel Volturno. Ho iniziato a cercare lavoro tra gli americani che abitavano al Villaggio Coppola, ho trovato una famiglia che mi ha preso per fare la baby-sitter. In quel periodo non avevo niente, per sopravvivere facevo qualsiasi lavoro: le pulizie in casa, la raccolta dei pomodori o della frutta e anche… (ride) Un giorno sono andata da uno che faceva mobili: “Signore, cerco un lavoro”. “Eh, ma qua c’è solo lavoro di carpentieri, e tu come fai? Sai mantenere il martello?”. “Sì!” (ride). “Allora vieni. Vieni con me che ti insegno”. Ho lavorato quasi un anno con loro. Preparavo i cuscini per le poltrone, utilizzavo la macchina da cucire, mettevo i chiodi. Tutto quello che avevo fatto prima era diventato passato. Dovevo pensare al futuro. Anche se il futuro non mi offriva niente.
«Da bambina avevo tutto un altro sogno… Volevo studiare, andare in Inghilterra. Qui, però, tutto è affondato. In Inghilterra volevo studiare Scienze Politiche. Eh sì! (ride) Sono cresciuta in un paese, il Ghana, dove il colonialismo ha avuto un ruolo importante. Dentro di me ho conservato l’immagine di un popolo sofferente, un popolo che aveva tutto ma niente gli apparteneva. In quella terra, così ricca di miniere, di diamanti, di oro, ai bambini mancava il cibo e andavano a scuola scalzi, senza libri, seduti su sedie tutte rotte. Guardavo noi e poi guardavo gli inglesi: avevano scuole bellissime, teatri, cinema. Anche noi andavamo al cinema. Ogni giovedì gli inglesi facevano una proiezione per il popolo. Ma bisognava fare chilometri, camminare al buio per andare al loro campo. Il film finiva alle undici, poi di corsa a casa, e se non sapevi correre rimanevi indietro. Noi eravamo piccole e i grandi stavano avanti, correvamo perché la notte faceva paura. Una bella ginnastica per andare al cinema!
«Ma perché? Che cos’è che non è andato bene? Perché una parte del mondo vive bene e l’altra deve essere condannata a vivere male, senza che abbia commesso nulla? Tutto questo ha seminato qualcosa dentro di me. Non è odio, ma è tanta voglia di giustizia, di uguaglianza. Sono cresciuta solo con mia madre, che aveva otto figli. Non avevamo niente, andavamo in campagna a lavorare per portare qualcosa a casa e venderlo al mercato. Mia madre diceva: “Voi dovete diventare qualcuno! E se devo vendere i miei capelli per aiutarvi, lo farò!”. Abbiamo sofferto, però ce l’abbiamo fatta. Mia mamma è morta mentre io stavo qui in Italia. Mia sorella maggiore è morta. Mio fratello, il secondo, sta in Germania. Quella che viene dopo di me è morta anche lei. Poi ci sono altre due femmine che sono sposate, una vive negli Stati Uniti, l’altra insegna all’università in Ghana. L’ultima ha studiato marketing, è laureata e adesso lavora. Mamma ci ha seguiti fino alla scuola media, il resto l’abbiamo fatto da soli. Per continuare a studiare mi sono spostata ad Accra, la capitale. Per pagare la casa, la scuola, i libri, ogni sabato andavo a lavorare. A volte facevo l’imbianchino, a volte andavo a sistemare i giardini dei libanesi, dei siriani, degli europei. Così sono riuscita ad andare avanti, e i miei fratelli hanno fatto lo stesso.
«Quando ero a Castel Volturno mio marito viveva in Francia, non eravamo ancora sposati. Ci sentivamo al telefono perché lui non poteva venire qui, né io potevo andare là. Anche lui ha vissuto tante difficoltà. Non mi raccontava molto, non voleva parlarne. Dopo un po’ è riuscito a venire in Italia, però anche qui, insieme, non abbiamo avuto la vita facile. Era un musicista come me, ma qui è successo un disastro, un disastro… Ha conosciuto dei ragazzi di Mondragone, italiani, hanno messo su un gruppo e hanno iniziato a suonare. Anche se non erano molto popolari, andava bene, erano contenti, facevano quello che gli piaceva. Pian piano hanno iniziato a drogarsi. Tutti, sì, tutti loro… Erano gli anni Novanta. Abitavamo a Cancello Arnone, la casa era grande, e sotto, in cantina, c’era una stanza dove suonavano. È lì che ho scoperto quello che stava succedendo. Ho passato un periodo di grande sofferenza, non ne potevo più. Alla fine ho iniziato a fumare anch’io. E pian piano andava. Poi ho detto: “No, questa non è la mia vita, non posso perdermi così”. E sono riuscita a liberarmi. Lui invece non mi dava ascolto. A volte mi lasciava da sola a casa con le bambine e se ne andava dai suoi amici per un paio di giorni, in nome dell’arte e della musica. “Noi andiamo a suonare”, diceva.
«Nel ’93 è morto, ha avuto un infarto. Non so se è stata la droga, non lo so. Però la sua non era una vita sana. Quando è morto la situazione è peggiorata. Avevo tre figlie da crescere: Rabi aveva sei anni, Justice tre e Manuela cinque mesi. Ho fatto questa battaglia da sola, ho lavorato in campagna, come domestica… tutto per crescere loro. Ho abitato per un po’ al Villaggio Coppola, poi per due anni ho dormito al Centro Fernandes. Era il periodo in cui le bambine stavano tutta la settimana al Centro Laila e poi venivano a casa il sabato. A un certo punto ho detto no, volevo stare con loro. Ho trovato una casa e ogni mattina Angelo Luciano, il direttore del Centro Laila, veniva a prendere le bambine e le portava a scuola, poi alle diciotto le riportava a casa. Così anch’io potevo andare a cercare lavoro. Angelo Luciano mi ha aiutato per anni.
«Quando gli immigrati iniziavano ad aumentare di numero, e i problemi anche, ho cominciato a fare la volontaria al Centro Fernandes. Ero qui da molti anni, non avevo più paura di soffrire. La sofferenza, la povertà erano diventate cose normali della mia vita. Dopo la morte di mio marito, ho visto che altri suoi amici si stavano distruggendo. Quando li ho conosciuti erano ragazzi intelligenti, sani, determinati, però giorno dopo giorno si stavano spegnendo. Una volta, al Centro Fernandes è venuto uno di loro. Sono andata in bagno, ho preso lo specchio e gliel’ho dato in mano: “Guardati bene in faccia, sai dirmi chi è la persona che vedi? Ti riconosci?”. Questo ragazzo si è messo a piangere. Ho fatto lo stesso con altri due, e anche loro si sono messi a piangere. “Vedete, Eddy se n’è andato. Volete andare via pure voi?”. “No sorella, no”. Li ho portati dal dottor Natale. “Dottore, questi ragazzi li conoscevo bene, erano bravi ragazzi. Siccome sei un medico, e ho visto che hai buona volontà, puoi fare qualcosa per aiutarli?”. E da lì è iniziata la cura dei tossicodipendenti. Io facevo la mediatrice, sostenevo i ragazzi, davo consigli e quando mi vedevano si calmavano. Ancora oggi non ho smesso di parlare con loro, e quando vedo che qualcuno ce la fa, mi sento veramente bene, perché anche se non ho niente sono riuscita a dare qualcosa. Questo mi dà la forza per crescere le mie figlie. A loro non ho insegnato niente. Abbiamo imparato tutto insieme (ride). Loro sono più forti di me, e questo mi fa piacere. Hanno studiato qui, hanno iniziato a giocare qui con i bianchi, hanno un po’ della mia cultura e molto della cultura occidentale. Sono meglio di me. Sono molto meglio di me. Tra poco Rabi si laurea e Manuela si iscrive all’università. Justice, la seconda, ha problemi psicomotori, però è una ragazza molto brava che ci dà tanta felicità, al di là di tutti i suoi problemi è una luce per noi.
«Le difficoltà ci sono ancora, ma quelle di oggi sono poca cosa rispetto a quelle di ieri. Oggi ho le ali per volare… finalmente ho anche un lavoro stabile. Tre volte a settimana vado a Caserta, lavoro come interprete alla Commissione territoriale per i richiedenti asilo politico. Sono riuscita a mettere dei soldi da parte e pian piano ho costruito questo centro culturale. Ho messo i pannelli da sola, alcuni amici mi hanno aiutato a pitturare, un po’ di lavori di muratura, poi le sistemazioni interne le ho fatte tutte io. Voglio passare il resto della mia vita qui! (ride) Qui posso fare quello che sognavo quando ero bambina. Posso esprimere i miei pensieri, quello che sento dentro. Tutti questi quadri alle pareti sono miei, questi disegni raccontano i miei sentimenti verso gli altri, la gioia, il dolore… Il centro è in memoria di Miriam Makeba, una grande figlia dell’Africa. Un personaggio famoso che ha sacrificato la sua vita per gli altri. E anche il suo ultimo respiro, alla fine, l’ha regalato agli altri. È venuta a morire qui. Lei sapeva che non stava bene, ma è venuta lo stesso a cantare. Dopo aver girato tutto il mondo, è venuta a morire proprio a Castel Volturno, in mezzo a due gatti. È salita sui maggiori palcoscenici, ma l’ultimo era grande così… un metro quadrato. Così è la vita, no? Nasciamo piccoli, diventiamo grandi: qualcuno muore grande, però spesso quelli più grandi muoiono piccoli».