A Milano, l’aumento esponenziale dei valori immobiliari in vista delle Olimpiadi del 2026 sta aggravando l’emergenza abitativa e la pressione su spazi sociali ed esercizi commerciali diversi da ristoranti e bar. Nel quartiere Isola, che da anni ha perso gli storici abitanti, artisti e artigiani che lo animavano, ad andarsene sono ora la libreria Spazio BK e Volume Dischi e Libri, pochi mesi dopo il trasferimento della storica Isola Libri.
Per salutare il quartiere prima di spostarsi in un’area più periferica, la sera del 7 novembre BK e Volume hanno organizzato un “rito corale di passaggio”. Sono intervenuti giornalisti, musicisti, artisti e abitanti che si sono sentiti a casa in questo tratto di via Porro Lambertenghi che per anni è riuscito a resistere alle dinamiche di espulsione e sostituzione in corso nel quartiere Isola e nell’intera città. Pubblichiamo di seguito l’intervento di Lucia Tozzi in occasione della serata di saluto.
BK e Volume non sono le prime librerie che lasciano l’Isola: sono state precedute da Isola Libri, a pochi metri da qua, che per ora si è spostata a Dergano, e che è stata cacciata per lo stesso motivo, l’aumento radicale dell’affitto, ed è stata rimpiazzata da un ennesimo ristorante. L’anno in cui BK ha aperto, il 2012, era l’anno in cui nacque Macao (e per inciso anche mio figlio, ma non c’entra niente), e sembrava che una critica alla gentrificazione e finanziarizzazione della città stesse prendendo forza, che una piccola moltitudine stesse cominciando a lottare per riprendersi gli spazi, a Milano come in Italia. Poi invece arrivò l’Expo e spazzò via tutto, prima censurando e poi catturando il dissenso, e trasformando qualsiasi azione dal basso in un pezzo di rigenerazione urbana, di brandizzazione volta a favorire l’aumento del prezzo del metro quadro.
Così Macao è stato protagonista della valorizzazione di Porta Vittoria ed ex Macello, ed è stato sloggiato per fare posto al progetto ARIA e alla nuova BEIC, una biblioteca dove si potrà fare di tutto tranne che leggere, e i prezzi in zona hanno superato i 4.700 euro al metro quadrato. Così è successo a tante associazioni, centri culturali, giardini condivisi, spazi animati da persone il cui obiettivo era esattamente agli antipodi, ma che non hanno saputo riconoscere il pericolo della comunicazione, della sussunzione per usare una parola di Marx, o non hanno avuto la forza di contrastarlo.
Eppure il pericolo della gentrificazione, della desertificazione, della foodification era già ben noto, raccontato da attivisti e scrittori e reportage e studiosi per città come Manhattan, Barcellona, San Francisco, Berlino e mille altre.
Rileggete per esempio il capitolo sulla Bowery in Vanishing New York di Jeremiah Moss: nel 2006 il locale storico che aveva ospitato il debutto dei Ramones chiudeva i battenti per sempre, con un rito officiato da Patti Smith; dopo sei mesi il suo fondatore Hilly Kristal moriva e al suo posto si installò un fashion brand di lusso, che lanciò una serie di prodotti brandizzati con il nome dell’ultimo quartiere di frontiera a Manhattan, il birthplace of Punk: i Bowery jeans, i Bowery boots, eccetera. La cosa più assurda è che il fashion designer in questione vendette questa operazione estrema di mercificazione come una battaglia contro la mercificazione: “CBGB non diventerà una banca o uno Starbucks!”. Mentre la cosa più triste è che Arturo Vega, direttore artistico dei Ramones, era lì a confermare: “È una cosa naturale. Le cose muoiono e si trasformano”.
Un po’ come dice un cantante isolano, Francesco Bianconi dei Baustelle, che ha sostenuto che chi denuncia l’andazzo milanese “ha scoperto l’acqua calda” e che queste cose succedono dappertutto, d’altra parte anche lui vorrebbe una casa al Marais ma non se la può permettere. E tuttavia si guarda bene dall’attaccare il sindaco perché a) non è colpa sua b) attaccare la sinistra da sinistra significa darsi la zappa sui piedi. E infatti, a forza di non criticare la sinistra neoliberale, negli Stati Uniti Trump è tornato presidente.
Che cosa è successo alla Bowery dopo? È diventato un “quartiere di lusso in cui dei punk di mezz’età difendono le ragioni della rendita contro gli attivisti antigentrification”. È diventato il quartiere del New Museum (progettato dalla giapponese Sejima di SANAA, quella del campus Bocconi) che vende tra i gadget delle capsule d’oro 24 carati da mangiare; del Bowery bar, con i party di Louis Vuitton; degli hotel di lusso come il Cooper Square Hotel, odiato dagli abitanti che lo chiamano “the Dubai Dildo”. Dove Basquiat morì di overdose oggi c’è una macelleria giapponese che vende wagyu beef a prezzi esorbitanti. Il boutique hotel Bowery House invece considera gli homeless sul marciapiede rimasti una “experience” da offrire ai clienti. Nonostante le scritte di protesta come “Save the city, kill a Yuppie” o più classicamente “The end is near”, anche il Mars Bar, un altro monumento della New York underground, è stato rimpiazzato da un luxury condo, Jupiter 21.
Non c’è niente di naturale in tutto questo. È il frutto di scelte politiche ben precise, a favore della rendita. Come il decreto che il Pd, per difendere il mercato immobiliare milanese e l’operato della giunta, ha elaborato spalla a palla con il governo Meloni-Salvini che dice di combattere, e che tra poco darà una nuova spinta a questo sviluppo urbano classista e violento. Sono politiche che possono essere contrastate, a cui possiamo opporci. Se non ci opponiamo, l’Isola e Milano e Roma e Napoli e tutte o quasi le città diventeranno sempre più dei deserti urbani tavolinizzati, popolati esclusivamente da ricchi che si ingozzano. Se non vogliamo finire come nel film di Truffaut, imboscati nelle campagne a tramandarci i libri imparati a memoria prima dei roghi, conviene lottare.
Viva BK e Volume! Facciamo in modo che non debbano spostarsi ancora più in là, teniamocele strette.