
Mai come nel corso degli ultimi due anni il carcere in Italia si è mostrato nei suoi tratti più violenti. Le rivolte e le proteste che lo hanno attraversato nei primi giorni della pandemia, tra il 7 e l’11 marzo 2020, hanno riguardato circa seimila detenuti e cinquanta istituti di pena, consegnandoci un bilancio drammatico. Sono quattordici i detenuti morti a seguito di quegli scontri, nove al Sant’Anna di Modena, tre a Rieti, uno a Bologna, uno (nei giorni successivi) a Santa Maria Capua Vetere, per cause ancora da chiarire, sessantanove quelli feriti. A questi numeri vanno aggiunti più di cento agenti di polizia feriti e danni per diversi milioni di euro. L’anno successivo, nell’estate del 2021, l’inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere e le immagini delle telecamere interne hanno mostrato a una opinione pubblica sempre pronta allo scandalo, quasi mai alla riflessione, quale livello di violenza potesse raggiungere la risposta di una istituzione desiderosa di recuperare con la forza un equilibrio smarrito.
Se vogliamo però comprendere di cosa parliamo quando parliamo di carcere, quale definizione dare di questa istituzione, dei poteri che la compongono, delle dinamiche che la agitano, dei discorsi che l’accompagnano, quale ruolo assolve oggi il carcere nel suo nascosto agire quotidiano, al di là di clamori e retoriche, ci soccorre l’ottimo libro scritto da Valeria Verdolini, docente di sociologia alla Bicocca di Milano, di recente pubblicato da Carocci, L’istituzione reietta. Spazi e dinamiche del carcere in Italia. Un saggio denso che aiuta a comprendere non solo i fatti recenti, ma più in generale il ruolo che l’istituzione carceraria assolve, nelle sue origini e nelle sue dinamiche attuali. A fronte di un carcere in espansione per numeri, di una prigione che assolve la funzione di contenitore dell’esclusione e di foce in cui sboccano tutti i rivoli della marginalità, lo spazio fisico dove trova “ospitalità” la miseria del mondo che non ha altro sbocco sociale, suggestiva e originale è la definizione che Valeria Verdolini propone: l’istituzione reietta. Reietto – scrive – deriva dal latino reiectus, participio passato di reicĕre, ha più di un significato. “Il primo significato è ‘respingere, rigettare’, un’accezione che comprende le riflessioni sul carcere come ‘discarica sociale’, come ‘pattumiera senza speranza’, come istituzione di raccolta, contenimento e di incapacitazione” e ancora “reiectus presenta, tuttavia, ulteriori significati: rilanciare di rimando, rigettare, ma anche deferire, rimettere, demandare a un altro. In qualche modo il carcere è l’istituzione reietta proprio perché si demanda all’istituzione penitenziaria lo svolgimento di una serie di funzioni di welfare che si sono ‘ritirate’, o che comunque non presentano risorse sufficienti per gestire la popolazione che ne richiede il sostegno. Reiectus significa, ancora rimandare, differire, prorogare […], il carcere è istituzione reietta, perché proroga le forme di sopravvivenza a fronte di vulnerabilità strutturali e differisce l’intervento (ora punitivo, ora di supporto) dilazionandolo nel tempo. È, a tutti gli effetti, un welfare a bassa intensità”.
Il libro è costruito su due trame portanti. La prima, più evidente, tiene insieme l’analisi delle teorie e dei discorsi prodotti in quasi un secolo di storia del carcere (imponente bibliografia che va da Rusche e Kirchheimer, a Garland, da Foucault a Pavarini) e le dinamiche del carcere in Italia, attraverso la lettura dei numeri e delle statistiche che ne segnano l’evoluzione più recente. Verdolini ragiona degli spazi della pena, le funzioni che l’istituzione carceraria assolve come “manicomio”, “ospedale”, “comunità di accoglienza”, per poi passare in esame gli attori istituzionali e il carcere come repertorio di pratiche (la vita quotidiana e il ruolo degli staff), per portarci poi nel “carcere come spazio del conflitto sociale”. L’autrice tesse una tela complessa, in cui la struttura schematica dei capitoli, il diluvio di citazioni, i grafici disseminati tra le pagine e l’appendice statistica, sono passaggi strumentali per portare a segno una critica rigorosa all’istituzione carceraria. Al lettore la prigione reale appare come in un’epifania. Verdolini la sveste e rileva come un sismografo i movimenti delle forze meno visibili che animano il sistema, mimetizzandosi all’interno della dimensione giuridica. Incisiva la dicotomia (le voci di Ongaro e Basaglia scandiscono il ritmo di questa operazione) tra l’ideologia, “il carcere è un luogo di riabilitazione del condannato”, e la pratica dell’istituzione, “il carcere è un luogo di segregazione e violenza”. Nondimeno, la ricostruzione dei contesti passa per l’inquadramento storico delle principali trasformazioni. Infatti, Verdolini tiene sempre in considerazione la traccia cronologica dei provvedimenti legislativi che assorbono e determinano la fisionomia dei modelli carcerari.
Il punto temporale di emersione di questa nuova fase del penitenziario, che si riorganizza continuamente intorno agli interessi della polizia penitenziaria, è individuabile nel “pacchetto sicurezza” del 1999. Quei provvedimenti frantumarono il ruolo del direttore di istituto e archiviarono definitivamente il carcere a “conduzione familiare” del secondo dopoguerra (un fossile visibile oggi in alcune cerimonie istituzionali). L’autonomia fattuale del corpo di polizia penitenziaria, l’istituzione dei Gom e dell’Ufficio per la garanzia penitenziaria (una sorta di servizio di intelligence interno), registrarono un nuovo modo di inquadrare l’esecuzione penale. La “rottamazione” (per dirla con le parole di Alessandro Margara) di alcune idee di solidarietà e la sensibilità nei confronti di alcune contraddizioni, prospettive che avevano guidato la riforma del 1975, aprì le porte a un “modello nuovo di zecca di città senza barboni e con galere fiammanti, piene di delinquenti di tutte le dimensioni (ma, quando in galera sono tanti, non si sbaglia: la pezzatura largamente prevalente è quella piccola)”. Il carcere “dopo Cristo” è quello del contenimento massivo.
La seconda trama, in filigrana, è lo sguardo attivo sul carcere, i resoconti e gli incontri diretti durante le visite dell’Osservatorio sulla detenzione dell’associazione Antigone, che rendono materia viva quei discorsi e quelle analisi, che svelano, con i dettagli apparentemente marginali delle risposte dei dirigenti penitenziari, i dispositivi di una istituzione incapace di mutarsi e di assolvere a un mandato che non sia solo di custodire e nascondere. Le “note di campo” fotografano gli aspetti tipici, grotteschi, violenti, ridicoli, dell’istituzione, come la descrizione concreta dei processi di infantilizzazione del soggetto recluso: “Nel corridoio del reparto un detenuto si avvicina alla comandante sollecitando una richiesta già espressa tramite domandina, alla quale la persona ritiene di non avere ancora avuto risposta, e non ne capisce le ragioni. La comandante si avvicina e agitando il dito indice verso il detenuto, con tono in farsetto, gli dice: ‘Perché non hai ottenuto la risposta? Eh? Perché? Perché hai fatto lo Stu-pi-di-no! Ecco perché’. (Carcere del Nord Italia, giugno 2021)”.
L’analisi scientifica di Verdolini impone un’assunzione di responsabilità e spinge a prendere posizione rispetto al nostro “notturno carcerario”, come ricorda l’autrice con le parole di Bolaño in apertura al testo: “All’improvviso le cose sono emerse… Bisogna essere responsabili. È tutta la vita che lo dico. Abbiamo l’obbligo morale di essere responsabili delle nostre azioni e anche delle nostre parole e perfino dei nostri silenzi, sì dei nostri silenzi”.
Cosa è dunque oggi il carcere? La risposta, puntuale, ci sembra proprio sia in queste parole: “L’istituzione reietta è la combinazione di questi molteplici significati: è l’istituzione che gestisce tutto ciò che il corpo sociale respinge, e svolge quindi una prima funzione contenitiva; è l’istituzione a cui viene demandato il welfare degli indesiderabili, ma anche il welfare indefinito che non necessita di specificazioni, una sorta di farmaco passe-partout che viene somministrato per placare la sofferenza politicamente strutturata. È l’istituzione che proroga, che pospone la gestione del margine, che ne sospende per un periodo il flusso quotidiano, che non risolve ma non può rifiutarsi di provarci. Infine, è l’istituzione che disprezza, proprio perché nel disordine e in tale esercizio si esplicita il potere, la legittimazione e la conservazione delle forme di sovranità”. (dario stefano dell’aquila / luigi romano)