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sanità
4 Novembre 2020

Lo sciopero degli infermieri. Paghe da fame e contratti usa e getta

Monitor
(disegno di ottoeffe)

Tra le tante mobilitazioni e proteste che attraversano l’Italia durante questa seconda ondata, ce n’è una che sembra non interessare a nessuno, quella che gli infermieri stanno portando avanti da mesi per ottenere migliori condizioni di lavoro. Il 2 novembre sono addirittura andati in sciopero, nonostante gli ospedali siano sotto stress per il crescente numero di malati. «Noi questo sciopero non lo volevamo fare – mi ha raccontato Mario De Santis, referente regionale per la Campania di Nursing Up, il sindacato di infermieri che ha indetto lo sciopero –, sapevamo bene a cosa avrebbe portato, con la chiusura delle poche sale operatorie e ambulatori che sono ancora aperti. Ma non hanno provato nemmeno a fermarci, con la tracotanza assoluta di chi o non ci stima o si disinteressa di tutto».

«A marzo – continua De Santis – ci hanno chiesto di salvare il paese e ci hanno chiamato angeli, ma appena gli indici epidemiologici si sono abbassati, siamo tornati al punto di prima: hanno chiuso gli ospedali Covid e hanno addirittura licenziato gli infermieri che avevano assunto per fronteggiare l’emergenza». Il sindacato Nursing Up si è mobilitato fin dai primi di giugno, con una serie di flash mob in svariate città italiane, da Bolzano a Salerno, poi con una manifestazione a Milano il 4 luglio, e quindi con una manifestazione nazionale a Roma il 15 ottobre che ha visto la partecipazione di più di duemila infermieri e l’annuncio dello sciopero del 2 novembre.

Sotto lo slogan di #maicomeprima, sono state fatte richieste precise per migliorare le condizioni di lavoro degli infermieri italiani, che sono tra i meno pagati d’Europa pur avendo il livello di formazione più alto. «Non abbiamo nemmeno chiesto di allineare la retribuzione ai livelli europei – ha continuato De Santis –, ma la risposta del governo è stata assolutamente nulla. Qualche giorno prima della manifestazione a Roma siamo stati ricevuti dal ministro Speranza, che ha semplicemente tessuto le lodi di se stesso e di tutto quello che ha fatto, senza annunciare misure pratiche».

La prima rivendicazione degli infermieri è l’uscita dall’area contrattuale del “comparto”. Dal punto di vista dei contratti, infatti, il variegato mondo della sanità pubblica italiana è diviso in quattro categorie: la dirigenza medica e veterinaria, gli amministrativi, la dirigenza sanitaria, e poi il comparto. «Il comparto è una cosa immensa, che va dagli infermieri specializzati con lauree di primo e secondo livello fino al custode e al portantino». In questo calderone, che racchiude esperienze, competenze e mansioni molto diverse, «è difficilissimo riuscire a far pesare la nostra formazione e la nostra particolare situazione lavorativa al tavolo delle trattative».

La separazione degli infermieri da questo comparto è stata già sancita da varie leggi, che rimangono tuttavia inapplicate. «I sindacati confederali, che non sono sindacati professionali ma generalisti, non ne hanno mai voluto l’applicazione, anzi la osteggiano. Per questi sindacati non c’è differenza tra un infermiere con due lauree e chi taglia l’erba. Per loro non esistono i professionisti, esistono solo i lavoratori». Allo stesso tempo, su circa 620 mila persone che lavorano nella sanità pubblica, più della metà sono infermieri. «Stiamo parlando di 380 mila professionisti, una fetta troppo grossa per perderne il controllo». Questo fa sì che gli infermieri italiani percepiscano fino a mille e duecento euro al mese in meno dei colleghi europei, e ha portato alla nascita di un sindacato autonomo come Nursing Up.

Dopo lo shock causato dall’esplosione della pandemia lo scorso inverno, si è fatto un gran parlare del “bonus Covid”, il compenso monetario per gli sforzi messi in campo dagli infermieri. «A parte il fatto che in molti non l’hanno ancora ricevuto, come per esempio chi lavora nell’Asl Napoli 1, se ci avessero dato una medaglia al valore civile di latta eravamo tutti più contenti. Mille e cento euro lordi, che alla fine vuol dire meno di settecento euro netti, per chi ha rischiato e rischia ancora di morire, è una ridicola mancia che si poteva pure evitare. Non è quello che chiediamo, e non è stato nemmeno elargito a tutti».

Come per molti aspetti di questa pandemia, la situazione in Campania è critica anche dal punto di vista degli infermieri. «In questa regione mancano più di dodicimila unità. Mentre nelle altre regioni ci sono mediamente diciassette infermieri per mille abitanti, in Campania ce ne sono sei». Le cause di questa situazione sono tante, e tra tutte spicca il “piano di rientro”, i tagli alla spesa sanitaria imposti nel 2007 a quelle che allora venivano definite come “regioni canaglia”, cioè quelle in cui decenni di sprechi e corruzione avevano portato all’accumulazione di miliardi di debiti. «La regione Campania i debiti li ha ripagati, e ci ha messo quasi dodici anni, con il blocco delle assunzioni, il blocco totale di tutti gli approvvigionamenti, gare d’appalto a ribasso… il peggio del peggio. Alla fine i ladri hanno rubato e poi se ne sono andati, e tutti i debiti sono ricaduti sulla popolazione».

La pandemia sembra non aver cambiato nulla: gli infermieri assunti per fronteggiarla hanno contratti a tempo determinato e si trovano ad affrontare un lavoro rischioso sapendo che verranno licenziati prima possibile. «Al Cardarelli su una graduatoria di centottanta candidati hanno accettato solo in dodici. E mi sembra logico: nessuno accetterebbe di rischiare la vita sapendo di essere quasi certamente licenziato a dicembre. E non stiamo parlando di risorse straordinarie messe in campo per fronteggiare un’emergenza, ma di quasi settantamila infermieri mancanti in tutta Italia». Tutto ciò porta anche molti infermieri a trasferirsi all’estero, per esempio in Germania e nel Regno Unito.

Inevitabilmente, il morale tra gli infermieri è bassissimo. «Mentre la prima ondata ci ha colto all’improvviso, adesso abbiamo veramente paura del modo in cui stanno gestendo l’emergenza. Vogliono riconvertire un ospedale fatiscente come il San Giovanni Bosco in un ospedale Covid in dieci giorni. Questo vuol dire fare tutto sulla carta. La maggior parte degli infermieri sono rassegnati, e siamo solo al 2 novembre». (jános chialá)

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