Si svolgerà domani, venerdì 2 dicembre (ore 18:30), allo Scugnizzo Liberato (salita Pontecorvo, 46), l’incontro-dibattito Lo stato della polizia. Addestramento, funzioni politiche e abusi delle forze dell’ordine.
All’iniziativa parteciperanno: Anna Maria Orefice (Scugnizzo Liberato), Charlie Barnao (Università Magna Grecia di Catanzaro), Maria Rita Prette (Sensibili alle foglie), gli avvocati Eugenio Losco e Gaia Tessitore.
Pubblichiamo a seguire un estratto del capitolo L’imbarbarimento del diritto, dal libro Tortura. Una pratica indicibile, di Maria Rita Prette.
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Di segnali sul fatto che in Italia la tortura sia diventata pratica ordinaria non ne sono mancati in questi anni. E non si può negare che l’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario non presenti tutti gli elementi per ritenere che la tortura sia sistematica e autorizzata all’interno di quell’altra istituzione opaca che è il carcere. Sul trattamento riservato alle persone in 41 bis esiste una documentazione piuttosto consistente e non mi soffermerò su questo punto. Racconterò, invece, sia pure in estrema sintesi, la storia di Vincenzo Scarantino, perché mi sembra emblematica e consente di vedere in trasparenza il dispositivo di cui ci stiamo interessando.
Scarantino è un “ladro di macchine”, arrestato nel 1992 che, dopo più un anno di carcere a Pianosa, accusa se stesso e altre sei persone dell’attentato mortale al giudice Paolo Borsellino. Nei processi che si terranno negli anni successivi, egli verrà condannato in via definitiva a diciotto anni di carcere, con i benefici premiali, mentre le sei persone da lui chiamate in correità – che sono innocenti e non hanno nulla da scambiare sul mercato della giustizia – saranno condannate all’ergastolo. In ben tre gradi di giudizio. E dunque, definitivi, andranno nel circuito di Alta Sicurezza a scontare la loro pena: un ergastolo ostativo, vale a dire uno di quegli ergastoli che equivale a una condanna a morte.
Nel 2010, un “pentito di mafia” si autoaccusa a sua volta della strage. Sembra, stavolta, fornendo dettagli più credibili del primo. I condannati sulla base delle dichiarazioni di Scarantino vengono scarcerati e vengono avviate le procedure per i dovuti risarcimenti.
Il fatto che qui interessa risale a quindici anni prima. Nel 1995, infatti, Scarantino, già collaborante e in permesso, aveva telefonato a Studio Aperto e aveva rilasciato una breve intervista nella quale diceva di essersi inventato i dettagli sull’autobomba, di essere stato addestrato a dire quelle cose, di essere stato sottoposto a tortura nel carcere di Pianosa, fra il 1992 e il 1994. Poche ore dopo nella sede palermitana di Italia Uno era arrivata la polizia, che aveva sequestrato la cassetta con la registrazione delle sue dichiarazioni. La procura di Caltanissetta aveva ordinato la distruzione di tutte le copie di quell’intervista. Per i quindici anni successivi non se ne era parlato più, come se non fosse mai successo.
Vincenzo Scarantino, in questa telefonata, aveva raccontato – e ha poi ribadito in diverse sedi processuali e giornalistiche successive – di cibo scarso e con i vermi, e di come la polizia lo avesse minacciato “di iniettargli il virus dell’Aids” e “di impiccarlo”. In cella, aveva “il divieto di lavarsi e di dormire”, e quando riusciva a chiudere gli occhi lo svegliavano con “secchi d’acqua gelida lanciati addosso”.
Che il trattamento delle persone detenute a Pianosa in quel periodo sia del tutto assimilabile alla tortura sembra un fatto oggi acclarato.
“[I nomi] Mi venivano suggeriti, non è che me li dicevano in modo esplicito. Si parlava e mi dicevano: “Ma questo c’era, ma quest’altro c’era pure?”. Il dottore La Barbera mi faceva capire… E così m’inventai la storia di una riunione, volevano trovare i colpevoli attraverso me. E io gli ripetevo: ma cosa vi devo dire che non saccio niente”.
Come da copione, alle sevizie e minacce si alternavano promesse di denaro e libertà.
E lui mi disse: “Tu devi confessare”. Ma io gli ripetevo: “Non so niente”. Lui insisteva: “Tu devi diventare come Buscetta, importante come Buscetta. E allora, poco a poco, io sono entrato nel personaggio, cominciavo ad accusare tutti. Avevo ventisette anni, stavo male. La Barbera mi disse pure che lo Stato avrebbe acquistato alcuni magazzini, alcune case che avevo: “Ti diamo duecento milioni, esci dal carcere e non ci entri più”.
D’altra parte l’articolo 13 della legge 304, quella legge approvata a ridosso del dibattito parlamentare sulla tortura, nel 1982, scrive nero su bianco, nelle sue successive modificazioni, che lo Stato si fa carico dell’assistenza economica del collaboratore, per esempio se ha una casa gliela compra al prezzo di mercato, per consentirgli di andare a vivere da un’altra parte, con un nuovo nome e una nuova identità, ed esplicitamente di dargli un assegno di mantenimento nel caso perda il lavoro.
Mi sembra importante questo, perché dovrebbe indurre tutti noi a guardare con occhi diversi alle notizie che sentiamo al telegiornale o leggiamo sui quotidiani, quando ci dicono che il tale mafioso, il tale ’ndranghetista o il tale camorrista è diventato un collaboratore di giustizia. Dovremmo chiederci, prima di tutto, cosa gli è stato fatto nel periodo precedente. Dovremmo chiedere la garanzia, per chiunque sia arrestato, che non possano succedergli cose di questo genere.
La storia di Vincenzo Scarantino merita alcune riflessioni. Mentre le torture che abbiamo descritto nella prima parte di questo lavoro avvenivano nel momento che va dall’arresto di una persona al suo trasferimento in carcere, anche per ottenere informazioni su una realtà, qui parliamo di torture che avvengono dentro al carcere, a opera di agenti della polizia autorizzati a entrare nelle celle dei detenuti per ottenere l’elaborazione di una narrazione sostitutiva della realtà.
D’altra parte, il poliziotto citato da Vincenzo Scarantino non era proprio un agente qualunque, essendo stato incaricato con decreto governativo di guidare il “Gruppo Falcone Borsellino”, che doveva occuparsi delle inchieste sulle uccisioni dei due magistrati.
“Mi facevano studiare sul libro di Buscetta per imparare a essere un bravo collaboratore di giustizia, prima degli interrogatori mi dicevano cosa dovevo dire”, riprende Scarantino dopo una lunga pausa. “Ci risulta che lei fosse in possesso dei verbali da lei stesso resi prima ancora che venissero depositati” (…) “Faceva parte del mio indottrinamento perché a volte sbagliavo e bisognava correggere il tiro per far collimare le mie dichiarazioni con quelle degli altri due pentiti, Candura e Andriotta”.
Francesco Andriotta ha l’ergastolo e nel 1993 avvalora le dichiarazioni di Scarantino.
“Mi fecero una perquisizione, intorno alle tre e mezza del mattino. Mi hanno fatto uscire nudo all’aria. Qualcuno mi ha messo un cappio e diceva: tu devi collaborare. Ma io non ho niente da collaborare, dicevo. Sentivo anche le urla di Scarantino. Stavo male, perché lui mi ha sempre detto che non c’entrava niente con la strage”. Alla fine, Andriotta dice ai procuratori di Caltanissetta: “Io ho paura, ho l’ergastolo, ma io voglio vivere, voglio pagare la mia pena. Però da vivo, non da morto”.
Si potrà pur dire che le torture inflitte a Scarantino e ad Andriotta nel 1992, come quelle toccate a Giuseppe Vesco nel 1976, rientrino in una strategia volta a insabbiare talune inchieste su eventi dei quali lo Stato preferisce dare una versione piuttosto che un’altra, ma questo può tuttalpiù aggiungere inquietudine a fatti già estremamente inquietanti, e nulla toglie alla sofferenza procurata alle persone che vi si trovano coinvolte, spesso per caso e senza alcuna tutela.
Si potrà dire che il carcere, essendo una istituzione opaca, da sempre ospita squadrette punitive, e che a questo anche le coscienze dei cittadini più affezionati alla Costituzione si devono rassegnare.
Non sembra tuttavia che manchino invece precise responsabilità politiche e istituzionali, dal momento che è stato il Ministero di Grazia e giustizia a istituire con decreto un Gruppo Operativo Mobile (GOM). Questo gruppo, composto da circa settecento agenti della polizia penitenziaria, si forma nel 1997, viene ufficializzato da Oliviero Diliberto, allora ministro di Grazia e giustizia, con decreto ministeriale nel 1999 e regolamentato – nel senso proprio di avere un regolamento – nel 2007, quindi dieci anni dopo la sua nascita.
Gli agenti del Gom, alle dipendenze del direttore generale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, hanno il compito di occuparsi dei detenuti in 41 bis e di fronteggiare quelle che vengono definite emergenze. È precisato nel decreto che la loro attività può essere svolta, “per motivi di sicurezza e riservatezza, con modalità operative anche in deroga alle vigenti disposizioni amministrative in materia”. Per sapere che cosa questo significhi concretamente mi limito a richiamare tre circostanze nelle quali ha operato il Gom: nel 1998 nel carcere di Opera; nel 2000 a Sassari, nel carcere di San Sebastiano; e nel 2001, curiosamente, non a caso insieme ad agenti del Nocs, a Genova, nella caserma di Bolzaneto che sarà teatro delle torture inflitte ai manifestanti contro il G8. […]
L’opacità che accompagna le vicende nelle quali sono coinvolte le squadre speciali, sia il Nocs sia il Gom, non è oggetto specifico di questo lavoro. Il quotidiano La Repubblica dedica alle vicende interne ai Nocs diverse inchieste. Fra settembre e ottobre 2011, pubblica alcuni articoli corredati di fotografie nei quali viene illustrato il clima interno alla caserma di Spinaceto a partire dalla denuncia di un agente. Non mi interessa qui entrare nel merito di queste vicende, assolutamente pubbliche e sulle quali sono state aperte delle indagini da parte delle autorità competenti. Mi preme invece riflettere su due questioni importanti per la società nella quale viviamo.
La prima riguarda tutti: nessun essere umano è in grado di torturare scientemente un’altra persona, a meno che non sia uno piscopatico, e quindi, per poter trasformare un gruppo di persone, per esempio di poliziotti, in una squadra di torturatori si deve lavorare su di loro, li si deve addestrare, li si deve a tutti gli effetti formare, affinché possano svolgere quel particolare tipo di lavoro. Gli effetti che questo addestramento avrà sulla psiche e sui comportamenti di questi agenti sono indagati in diversi studi, e le vicende della caserma dei Nocs a cui ho fatto cenno mi sembra ci consentano di concludere con chiarezza che insegnare a una persona a torturarne un’altra ha effetti devastanti anche sui torturatori. E che questi ultimi rimarranno liberi di agire nella società, al di sopra della legge.
Se anche, paradossalmente, ma non è così, piazza pulita fosse fatta del fenomeno terrorismo, attraverso la tortura, è certo che la piazza, questa piazza vuota di terroristi, rimarrebbe piena di torturatori, e la domanda è a quel punto: chi ci libererebbe dai torturatori?
La seconda questione riguarda la non occasionalità e la non casualità della tortura oggi, in Italia, che sembra invece essere una scelta istituzionale ben precisa, che chiama in causa le gerarchie delle forze dell’ordine e le istituzioni politiche e giuridiche che dovrebbero garantirne la trasparenza dei comportamenti verso i cittadini. Soltanto l’interconnessione tra diverse istituzioni può effettivamente consentire la costituzione di squadre speciali, incaricate di operare nelle situazioni nelle quali il rapporto tra Stato e cittadino appare già delicato, magari perché il cittadino contesta qualche iniziativa dello Stato, e dentro le sezioni carcerarie.
È un salto di qualità nella gestione dell’apparato della tortura, ed è anche una connessione molto stretta tra il trattamento in 41 bis e la tortura. I documenti che propongo di seguito possono forse gettare una scintilla di luce in alcune zone buie delle istituzioni di questo paese.
«Vi prego, adesso non fatemi tornare a Sollicciano, in carcere mi torturano», ha scongiurato il tribunale I. Q., collaborante detenuto per vicende di droga, dopo aver finito di ribadire le sue accuse agli agenti del Gom. Accuse pesantissime, quelle messe nero su bianco per primo da un pentito sardo, O. N., che – scarcerato per fine pena – invece di prendersi un aereo a tornarsene a casa, ha suonato alla caserma dei carabinieri per denunciare quello che succedeva nel reparto “Eolo” di Pagliarelli. Un vero e proprio lager – hanno ribadito i pentiti – con una sorta di “squadretta” di agenti del Gom che li spogliavano, li costringevano a stare nudi, a fare decine di flessioni, colpiti a calci e persino a colpi di spranga. Insulti e minacce psicologiche erano il pane quotidiano. «Ci facevano le foto e ci dicevano “Adesso le aggiungiamo alla collezione dei ‘senza palle’ che abbiamo a casa”. E ci conficcavano su gli spilli». Uno stato di isolamento totale, senza alcuna giustificazione giuridica, punizioni di ogni genere inflitte senza alcuna decisione del consiglio giudiziario. E poi l’incubo della cosiddetta “cella liscia”, una cella con solo un materasso buttato sul pavimento dove in molti sarebbero rimasti rinchiusi per giorni e giorni senza vestiti. Chiamati solo con sigle alfanumeriche e senza l’aiuto di nessuno, nonostante le ripetute sollecitazioni all’allora direttrice del carcere, Rita Barbera, e persino al magistrato di sorveglianza.
Quando il giudice monocratico del tribunale di Sulmona Ciro Marsella ha ascoltato oggi le loro testimonianze, non ha potuto far altro che spedire le carte in procura per verificare eventuali profili penali a carico di almeno cinque agenti di polizia penitenziaria. Caschi blu dai metodi sbrigativi appartenenti al Gom (gruppo operativo mobile), chiamati in gergo dai detenuti “i monaci”, per quelle vesti ampie sotto le quali nascondevano mazze e catene per picchiare i reclusi. Scene agghiaccianti quelle raccontate in due ore e mezza di interrogatorio protetto da due collaboratori di giustizia, scene che nel 2007 nel supercarcere di Sulmona sarebbero state molto frequenti.
Secondo il racconto lucido e ricco di particolari dei pentiti, infatti, “i monaci” si presentavano all’improvviso nelle celle del reparto giallo, quello destinato appunto ai collaboratori di giustizia, posizionavano assi di legno davanti alle celle per impedire la visuale e poi entravano e picchiavano i detenuti. Senza pietà e senza motivo. I due pentiti sentiti oggi, uno dei quali parte offesa proprio in un processo per violenza e lesioni, non hanno omesso particolari, nomi e cognomi, date e occasioni. “Avevano denunciato tutto alla magistratura – spiega l’avvocato di uno dei due, Cinzia Simonetti – per capire se per quei raid punitivi ci fossero mandanti, perché quando si è collaboratore di giustizia, dentro e fuori le sbarre ci si può aspettare di tutto”.
A far aprire l’inchiesta era stato il direttore del carcere Sergio Romice che, sentita la vittima e verificato il referto medico, aveva informato la procura di Sulmona di quanto denunciato. Poi nel corso delle indagini sono emersi altri particolari e oggi, durante il processo, ai “monaci” è stato dato nome e cognome. “Si è aperto il vaso di Pandora – continua l’avvocato – ed è giusto, anche per rispetto del lavoro degli agenti penitenziari onesti, che sulla vicenda dei monaci si faccia chiarezza”.
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