“La passione di Effer per l’ingegneria si rispecchia nella robustezza, nella durata e nell’affidabilità di ogni sua gru. […]. Ogni gru è progettata in modo da superare le aspettative; rendendo leggeri i carichi più pesanti, portando più lontano i carichi e inviando dati in tempo reale sul display del radiocomando”.
C’è scritto così sul sito della Effer, marchio storico di gru fatte in Italia ora proprietà della società svedese Hiab che a sua volta fa parte del conglomerato finlandese Cargotec. Il sito mostra le immagini delle merci in catalogo: bracci meccanici, muscoli di acciaio, giunti che brillano. Sembrano quasi giocattoli nelle foto espositive questi marchingegni, grandi e forti, dalle linee razionali progettate da ingegneri, prodotti con cura da maestranze operaie.
Allo stabilimento Hiab di Statte, in provincia di Taranto, «entrano lamiere ed escono gru pronte per i clienti». È così che ci hanno spiegato il complesso processo produttivo gli operai che hanno occupato la fabbrica a metà ottobre. «Non lottiamo solo per cento posti di lavoro – ci ha detto Simone con la voce stanca –, lottiamo per una storia di decenni, perché qua sappiamo fare le cose per bene». La storia di cui parla Simone, operaio della Hiab occupata di Statte, inizia a Bologna negli anni del boom economico e passa per Statte prima di annodarsi tra fabbriche e uffici di Helsinki e Malmö, Spagna, Polonia e qualche altro pezzo di mondo.
* * *
La Hiab di Minerbio, provincia di Bologna, una volta si chiamava Effer. Fu fondata nel 1965, e dopo gli stabilimenti di Bologna si allargò aprendo uno stabilimento anche a Statte nei primi anni del nuovo secolo. A Statte col tempo si è concentrata la produzione dei componenti e delle gru di portata minore, mentre a Minerbio restano uffici e produzione delle gru di grossa portata. La Effer, fondata da Giancarlo Conti è passata al Gruppo CTE di Lorenzo Cipriani nel 2005. Nel 2018 però, l’azienda viene acquistata dalla Hiab in un passaggio di proprietà inaspettato. «Ce ne accorgemmo dalle buste paga che era cambiata la proprietà», spiegano al presidio di fabbrica. È allora che le cose iniziarono a cambiare davvero.
La Hiab è un’azienda svedese che produce attrezzature per la movimentazione dei carichi su strada; fa parte del conglomerato Cargotec, nato nel 2005 da uno scorporo della Kone, effettuato per consentire la quotazione indipendente in borsa di entrambi i rami dell’azienda. La storia di movimenti finanziari e quotazioni si ripete oggi. All’inizio del 2024, infatti, Cargotec era composto da tre rami: MacGregor (movimentazione di carichi marittimi), Kalmar (movimentazione di container) e la stessa Hiab.
A luglio il gruppo ha scorporato e quotato Kalmar alla borsa di Helsinki, mentre si appresta a vendere MacGregor e a rendere Hiab una s.p.a. autonoma. In mezzo a queste manovre finanziarie c’è la volontà di presentare al mercato un’azienda più snella tagliando i rami che pur facendo profitti, garantiscono margini meno ampi. La scelta è ricaduta sulla fabbrica tarantina, dove un centinaio di operai specializzati e pochi impiegati producono a ciclo integrale gru e componenti per le lavorazioni che vengono finalizzate a Minerbio.
La produzione a Statte non si è mai fermata e le cose per Hiab non vanno affatto male. Grazie alla crescita della domanda post-pandemia, nel 2022 Hiab ha registrato ordinativi record. Tuttavia, approfittando del fisiologico calo degli ordini nel 2023, l’azienda ha lasciato a casa un centinaio di lavoratori interinali che aveva assunto per assorbire il picco produttivo. A luglio, poi, ha comunicato che entro la fine dell’anno procederà a una riduzione sostanziale dell’organico. I lavoratori di Statte hanno risposto con un lungo sciopero che ha portato alla convocazione dell’azienda presso un tavolo di crisi con la task force per l’occupazione della Regione Puglia. Al tavolo, l’azienda ha rigettato senza esitazioni un sostanzioso pacchetto di agevolazioni. «Hanno declinato l’offerta in venticinque secondi contati», ci ha detto Giuseppe, delegato di fabbrica della Fim-Cisl. Gli operai hanno quindi deciso di occupare lo stabilimento. La lotta ha portato la vertenza al ministero delle imprese e del made in Italy.
Quando li abbiamo incontrati per la prima volta in fabbrica, il clima era fiducioso. Il vertice al ministero del 23 ottobre era passato da pochi giorni e tutti erano in attesa di una svolta. A Roma la Hiab non aveva parlato di chiusura dello stabilimento tarantino ma non aveva neanche fatto chiarezza sulle sue intenzioni. La delegazione ministeriale aveva chiesto trasparenza. Al presidio c’era un’atmosfera distesa. Le visite di politici locali e regionali si sono ripetute. Il deputato locale della maggioranza ha assicurato davanti ai cancelli che il governo avrebbe fatto quanto necessario affinché una multinazionale non distruggesse un patrimonio manifatturiero del made in Italy. Gli operai ci hanno creduto.
Il pomeriggio del 30 ottobre al ministero si sono incontrati a porte chiuse impresa e ministero, senza sindacati né altre rappresentanze istituzionali. Non sono trapelate informazioni sulla discussione. Gli operai sono rimasti in presidio in attesa del vertice successivo del 5 novembre. In quell’occasione, Hiab ha comunicato chiaramente che entro dicembre intende chiudere lo stabilimento di Statte e cessare la produzione di gru leggere. L’azienda dichiara un calo delle vendite in questo segmento pari al sessanta per cento rispetto al 2022. La strategia aziendale si fa quindi chiara: spostare una piccola parte della produzione di tubolari e snodi da Statte a Minerbio e Argelato (a meno di venti chilometri da Minerbio) per produrre lì solo il ramo di gru pesanti. Tutte le attività definite non-core (produzione stabilizzatori, carpenteria leggera) verranno esternalizzate a fornitori esterni. Per Statte c’è lavoro solo per poche settimane ancora.
Con la ristrutturazione, venticinque operai di Statte potranno passare allo stabilimento bolognese su base volontaria e dopo una negoziazione con l’azienda. Il trasferimento dovrà concludersi entro i primi mesi del 2025. Il governo ha offerto un anno di cassa integrazione per prendere tempo e trovare un acquirente per lo stabilimento. L’azienda ha dichiarato che ha già provato a trovare acquirenti senza successo e che si impegna a valutare offerte di acquisto nei prossimi mesi; intanto ha comunicato che non rinnoverà il contratto di locazione dello stabilimento che scade a novembre del 2025.
I lavoratori contestano la narrazione dell’azienda su più fronti. In generale, credono che la crisi delle produzioni di Statte non sia solo dinamica di mercato, come sostiene l’impresa, ma piuttosto il risultato di strategie specifiche della dirigenza. I lavoratori non si spiegano perché proprio i modelli fatti a Statte abbiano subito un aumento da prezzo di listino anche del trenta per cento. E poi Hiab ha continuato a crescere in ordini, vendite, fatturati e dividendi. «Sono venuti a prendersi il marchio e una fetta di mercato – dicono all’occupazione –. Se ci avessero detto che c’è crisi e c’è da rimboccarsi le maniche, da lavorare di più, da ridursi lo stipendio, noi lo avremmo pure fatto», spiegano gli operai. Tra l’altro, nel corso degli anni i lavoratori hanno più volte provato a cercare un dialogo con il management per affrontare routine produttive che sembravano essere diventate poco efficienti. «I camion prima partivano pieni fino all’ultimo centimetro, poi abbiamo iniziato a fare viaggi con camion mezzi vuoti. Abbiamo chiesto di riorganizzare le cose per evitare gli sprechi e la risposta è sempre stata: pensate a lavorare», ci spiega uno degli operai che si occupa del magazzino.
A Statte poi si fanno produzioni e collaudi complicati da sempre. Le stesse gru pesanti che secondo l’azienda sono più remunerative si facevano a Statte prima di essere concentrate a Minerbio. Le maestranze tarantine, soprattutto collaudatori e carpentieri, negli anni scorsi hanno affiancato i lavoratori bolognesi in distacco per assicurarsi che la produzione delle nuove linee andasse a regime. «L’ottanta per cento della produzione di Bologna la facciamo noi qui. Infatti, noi abbiamo fermato la produzione e loro sono in ginocchio perché non sanno cosa produrre».
Oggi, martedì 12 novembre, è previsto un nuovo incontro tra azienda e sindacati a Roma ma non al ministero, che promette di seguire la faccenda ma conta che le parti sociali possano intavolare un calendario di azioni per il trasferimento di alcuni, il prepensionamento di altri, e la vendita.
* * *
È il 6 novembre. Siamo negli uffici della fabbrica occupata, fuori è già buio. È stata una giornata lunga per gli operai. Dopo l’incontro al ministero di ieri, quando l’azienda ha finalmente dichiarato che chiude e va via da Statte, i lavoratori hanno indetto un’assemblea. I delegati che erano a Roma hanno spiegato la situazione. Si è discusso. Si è deciso che non si può fare altro che continuare l’occupazione. L’aria di fiducia che si respirava al presidio durante i primi giorni è ormai svanita. Un anno è lungo, soprattutto se bisogna vivere di cassa integrazione, e non fa stare tranquilli. «Qui non c’è nessuno che deve essere addestrato. L’azienda va avanti da sola. Non servono capo-reparti e dirigenti». Non ci sono garanzie che un acquirente venga fuori e per i lavoratori spostarsi a Bologna con famiglia e figli è una scommessa. E poi tutti sono convinti che Hiab abbandonerà anche Bologna tra qualche anno. Forse, la principale conquista del fronte sindacale alla riunione del 5 novembre, è stata di tenere insieme i lavoratori di Minerbio e quelli di Statte. Anche i delegati bolognesi si uniranno al prossimo incontro con l’azienda e si dicono pronti ad azioni di solidarietà. Le strategie di Hiab promettono chiusura per Statte e un aumento della produzione e degli organici per Minerbio, ma si tratta di promesse di cui i lavoratori oggi si fidano poco. A Statte sono chiari: «Oggi tocca a noi, domani è il turno di Bologna», dice Simone.
I lavoratori contestano l’incontro a porte chiuse tra impresa e ministero. «In quell’incontro qualcosa è cambiato». Quello che è certo è che alla riunione del 5 le decisioni sembravano già prese, e ai sindacati era rimasto poco da negoziare. È con tono calmo che Simone raccoglie ancora il pensiero di tutti: «Ci eravamo illusi che per una volta il governo stesse facendo gli interessi dei cittadini e ci siamo presi un calcio in culo». «Sono forti con i deboli e deboli con i forti – scuote la testa Leo, nella felpa della Fiom –. Se uno fa un presidio, blocca una strada per il suo lavoro, per l’ambiente… allora passa i guai. Poi con le multinazionali fanno gli agnellini».
Con Raffaele, delegato di fabbrica della Uilm, e con gli altri tentiamo la contabilità dei fornitori locali che rischiano di andare gambe all’aria se lo stabilimento di Statte chiude. C’è la ditta delle pulizie, le aziende di trasporto, i fornitori di minuteria, le manutenzioni elettriche e di macchine speciali, la ditta addetta al taglio e quella addetta a trattamenti e verniciature speciali delle lamiere. Sono tutte realtà locali che rischierebbero di chiudere con la chiusura di Hiab. Sono altri cinquanta, forse cento, lavoratori a essere in gioco in questa stessa partita.
Il paragone con la grande acciaieria a pochi chilometri dallo stabilimento ritorna nei discorsi. Alla piccola impresa manca l’onda d’urto della massa operaia dell’acciaio. «Non siamo l’Ilva che possiamo bloccare la superstrada e la città. Potevamo occupare la fabbrica e lo stiamo facendo», ci dice uno degli operai più taciturni. L’occupazione dello stabilimento è iniziata il 15 ottobre. Mentre gli operai entravano in assemblea permanente, il ministro del made in Italy Urso, a pochi chilometri di distanza, accendeva in pompa magna il vecchio altoforno 1 dell’acciaieria.
«Si parla tanto di crisi dell’Ilva e del bisogno di creare una diversificazione, di fare produzioni diverse. Siamo noi l’alternativa, la diversificazione. Siamo noi che produciamo senza inquinare», dice uno degli operai più giovani.
È quasi un mese che gli operai sono in occupazione e senza stipendio. Ora aspettano l’incontro del 12 novembre per capire quando partirà ufficialmente la cassa integrazione. Ci vorranno poi novanta giorni prima che l’Inps cominci a erogare la cassa e non si sa se l’azienda sarà disponibile ad anticipare i fondi. Lasciamo gli operai negli uffici che ancora discutono. Hanno chiuso il cancello del piazzale con le poche macchine di chi resta per la notte. È una serata umida e scura, le luci di raffineria e altiforni puntellano l’orizzonte. Non lontano da qui c’è il mare, anche se non si vede. (francesco bagnardi, angelo moro, giulia rizzello)