
Con il decreto legge del 10 settembre 2021, le università di tutto il territorio nazionale si sono dovute organizzare per effettuare i controlli nei confronti di chi desidera accedere alle strutture universitarie. Oltre a esibire il Green Pass all’ingresso, è necessario avere una prenotazione online che permetta di frequentare un corso, di accedere alla biblioteca o di andare a ricevimento da un professore. I posti per seguire una lezione sono limitati – “chi prima prenota, bene alloggia” – e il resto, la maggior parte, deve studiare a distanza perché ogni lezione è svolta in presenza con una diretta streaming.
È lecito chiedersi se le misure di controllo servano a contenere il contagio o a nascondere l’inadeguatezza degli spazi universitari, che anche prima del Covid non bastavano ad accogliere gli iscritti, o se siano piuttosto il tentativo di sterilizzare definitivamente la possibilità di vivere le università in modo “politico”.
Anche nelle facoltà del centro storico non è possibile accedere senza la regolare procedura e “un valido motivo”, seppure eludere i controlli può essere davvero facile. Resta il fatto che aule studio e autogestite spesso non sono aperte, come accade a palazzo Giusso, Corigliano, Gravina o ancora a San Marcellino, dove l’accesso al bellissimo giardino è vietato e resta attivo un solo corso di studio, in attesa di ospitare, forse, quello di Scienze Politiche.
Lettere e Filosofia della Federico II a Porta di Massa è invece una piacevole sorpresa. Nonostante i controlli, tanti studenti affollano il cortile e le aule studio sono aperte a un numero limitato di persone. Inoltre, sia l’aula autogestita “Lettere precarie” che lo “Spazio di Massa” sono aperte, con tante persone che tornano ad animare quei luoghi fino a un anno fa chiusi forzatamente. «Stiamo impegnando molte energie per mantenere lo spazio aperto – dice un ragazzo del collettivo –, siamo in pochi e non riusciamo a opporci alla misura discriminante del Green Pass, ma garantire l’accesso allo Spazio di Massa è il punto da cui ricominciare».
Nello stanzone occupato dell’università la luce di una giornata di pioggia si posa su tanti studenti seduti a leggere o parlare. Al centro della sala mi siedo con una decina di persone del collettivo, riunite come ogni lunedì in assemblea. «Come stanno gli studenti oggi?», si chiedono. Hanno intenzione di organizzare un’iniziativa sul tema della salute mentale, più che altro un incontro aperto dove confrontarsi tra studenti che solo a luglio hanno visto suicidarsi un loro compagno. Disturbati dal vociare che proviene dai tavoli sparsi nella grande aula, i ragazzi provano a discutere anche delle questioni più organizzative, consapevoli di essere in un periodo di difficoltà, ma spinti dal bisogno di ritornare a sentirsi soggetto politico e non solo persone che inseguono l’obiettivo della laurea.
L’assemblea dura poco più di un’ora e subito dopo vedo i membri del collettivo intenti a pulire lo spazio. Nel salutarli provo sensazioni che oscillano tra l’ammirazione per la voglia che esprimono e lo sconforto, perché sembrano lontanissimi i tempi in cui nelle università napoletane si provava a mettere in discussione il sistema con un’azione rivoluzionaria. Erano gli anni Sessanta, il tempo in cui alcune avanguardie di studenti, assistenti e giovani professori sostenevano l’accorpamento di tutte le facoltà in unico quartiere (Fuorigrotta), l’interdisciplinarietà e l’apertura dell’ateneo all’intera città. Sono passati cinquant’anni e forse è normale sentire la distanza, ma la storia di quel movimento che mise in crisi il potere accademico è una lezione che oggi suona più che mai attuale.
«Siamo in una fase di ricorso per tornare in corso». Emanuele cita Giambattista Vico per provare a spiegare quello che sta accadendo al mondo universitario. Laureato nel 2005 alla facoltà di Lingua e letterature straniere dell’Orientale con 110 e lode, s’innamorò dell’America Latina perché un suo professore intitolò il corso “Quarant’anni di rivoluzione cubana”. «Vinsi una borsa di studio per fare la ricerca sulla tesi all’estero e andai a Cuba per due mesi, un’esperienza unica». Figlio di una provincia incolore, per lui l’università è stata la possibilità di diventare dottore in lingue, ma anche l’esperienza pratica di mettere in relazione il quartiere e l’università. «La mensa dell’Orientale era centrale. Tutti venivano a mangiare, studenti e gente del quartiere, inoltre i lavoratori della mensa erano compagni. Aprivano a pranzo e cena, dal lunedì al sabato, duecento coperti e con 2.500 lire mangiavi alla grande».
La presenza di Palazzo Giusso ha reso diversa la zona di Santa Chiara, per esempio dalla vicina Forcella, creando un rapporto anche conflittuale, ma spesso positivo. «Se mi mettevo a leggere un libro in piazzetta qualcuno si avvicinava per parlare. Era un ambiente stimolante perché c’era curiosità e voglia di conoscere e non esisteva ancora la movida».
Emanuele racconta che dopo il dottorato ha aperto nei pressi dell’università una copisteria con altri amici, un luogo che definisce anche di elaborazione, che gli ha permesso di restare nel territorio e continuare uno scambio con il mondo universitario, e anche con i movimenti: «Con i collettivi ho avuto un rapporto trasversale – dice –, che mi ha permesso di crescere senza farne parte attivamente perché sono uno spirito libero. Erano gli anni in cui l’erba era paragonata alla cocaina e l’università era uno spazio politico, non un centro per l’impiego dove lo studio è funzionale alla ricerca del lavoro». Oggi Emanuele insegna come professore di sostegno in una scuola media ed è consapevole che la depoliticizzazione dell’università ha radici profonde, ma la pandemia ha accelerato questo processo. «Nella biblioteca di Palazzo Giusso non c’è una prenotazione per consultare i testi da mesi. Vuol dire che nell’università non si fa più ricerca? Forse per fare ricerca si preferisce internet o le librerie, ma la differenza è sostanziale: in biblioteca non compri i libri, anzi puoi consultare un sapere che viene conservato per te e per gli altri».
La modalità con cui si studia trasforma anche lo studio in sé, l’obiettivo si definisce durante il suo raggiungimento e non potrà mai essere la stessa cosa vivere l’ambiente universitario rispetto a studiare per ore davanti a un computer. Frequentare l’università voleva dire partecipare ad accesi dibattiti durante i corsi con i professori coscienti della loro posizione, che partecipavano anche alle iniziative proposte dai collettivi. L’università che crea dubbi, idee e sviluppa nelle persone un senso critico che dallo studio passa al territorio, alla vita.
Una congiunzione che Fabio, prova a spiegarmi raccontandomi l’esperienza del Cineforum Orientale, una rassegna di film che dal 2009 al 2012 venivano proiettati nell’aula “Mura greche” di Palazzo Corigliano: «Con un gruppo di amici organizzavamo le proiezioni – dice –, comunicate con un’email anonima all’università. Nessuno ci ha mai risposto e nessuno ci ha mai impedito di svolgere la nostra attività».
Fabio mi racconta di come l’idea del cineforum nascesse in seno al collettivo dell’aula autogestita Flex di Palazzo Giusso per poi distaccarsene, per bisogno di continuità. «I movimenti creano degli spazi di agibilità, ma i film sono sempre considerati un’appendice dai collettivi, un modo per attirare gente o pubblicizzare un corteo. Noi abbiamo ricercato una costanza che generasse una ritualità».
Senza movimenti sarebbe stato difficile organizzare questo tipo di iniziativa, ma un collegamento troppo stretto rischiava di diventare un qualcosa di esclusivamente funzionale. Ogni giovedì per tre anni, senza saltare un appuntamento, il cineforum si è svolto difendendosi da sé come uno spazio esistente e politico, contribuendo a creare quella struttura di iniziative e relazioni non strumentale a qualcosa, ma centrale nell’esperienza di ogni studente del centro storico di Napoli. «Quando ho finito di studiare – dice Fabio – è cessato anche il cineforum, perché anche la fine è importante. Non si resta studenti a vita e le proiezioni ho iniziato a farle in altri posti».
C’ero all’ultima proiezione fatta nel 2012 all’università, ricordo che vedemmo Melancholia di Lars von Trier, la cui locandina ritrae una donna in un vestito da sposa galleggiare nell’acqua. Nonostante la drammaticità della pellicola, quell’immagine mi ha sempre trasmesso un senso di positività: la donna, infatti, non sembra soffrire, anzi, è cosciente di avere abbandonato un mondo per farsi cullare da un purissimo oblio. Nella società fluida e flessibile che stiamo costruendo, quella foto è per me un monito, il tentativo di fissare un momento e smettere di muoverci inesorabilmente nello spazio e nel tempo. Proprio come il Cineforum Orientale, un rito che teneva insieme tante persone, qualcosa da trattenere, non per essere nostalgici, ma perché da qualcosa dovremo pur ricominciare. (raffaele visone)