
Lo scorso 19 aprile è nato a Bologna il progetto Radical Housing, una cooperativa che raduna ottantasette persone e che ha occupato a scopo abitativo uno stabile di proprietà di Asp (Azienda pubblica di servizi alla persona). Come afferma il comunicato, “Radical Housing è un condominio sociale creato da una cooperativa di abitanti, un esperimento di commoning che si adopera per l’auto-recupero senza costi per la collettività di un edificio di proprietà pubblica dismesso da anni”.
Il progetto, di cui fanno parte per lo più persone migranti con una situazione lavorativa stabile, un salario dignitoso e una famiglia i cui figli frequentano regolarmente la scuola, racconta molto della situazione abitativa bolognese. L’occupazione è infatti la risposta a un’emergenza sempre più grave, come evidenziato da alcuni dati che vedono nella città un polo d’attrazione su cui gravitano quotidianamente 507 mila persone (turisti esclusi), a fronte di un aumento degli affitti del ventotto per cento rispetto al 2015. A nulla è valso l’insediamento di una nuova amministrazione nell’ottobre 2021, tanto che oggi l’aumento su base trimestrale è del quattro per cento per gli affitti e dell’uno per cento per la vendita [fonte Repubblica, 7/4/23]. Ciò avviene in un contesto nazionale che vede i mutui a tasso variabile toccare un picco pari a quello del 2012. Un’altra epoca, un’altra crisi.
A quel tempo il movimento di lotta per la casa costruì momenti importanti sia dal punto di vista dell’immaginario (pensiamo allo Tsunami Tour di Roma nel 2013), che da quello materiale. Vi fu infatti la capacità di rispondere dal basso alla crisi abitativa facendo ricorso a diverse pratiche, dalla resistenza agli sfratti alla riappropriazione degli spazi e alla costruzione di una forma di abitare comunitaria e collettiva.
Tuttavia con l’affermarsi del governo Renzi quei movimenti furono ferocemente attaccati. A Bologna si consumò una battaglia dal sapore simbolico: il 9 maggio 2015, dalle pagine di Giap!, descrivevamo lo sgombero dell’ex Telecom come una storia dell’orrore in cui centinaia di persone venivano trascinate a forza fuori da uno stabile che aveva la sede proprio di fronte al Comune, all’epoca sotto la guida di Virginio Merola (Pd). Oggi, l’allora vice-sindaco e attuale sindaco, Matteo Lepore, è affiancato da Emily Clancy (Colazione Civica).
In realtà le lotte di quegli anni permisero di ottenere alcune vittorie, che il Comune riconobbe con il metodo del bastone e della carota. Da un lato, fu trovata una soluzione abitativa, per quanto temporanea, per alcuni dei nuclei che vivevano in occupazione; si modificò la legge regionale che impediva l’accesso alle graduatorie degli alloggi Acer avendo un Isee pari a zero; infine venne potenziato il servizio degli alloggi di emergenza e di transizione che raggiunse le trecento unità. Dall’altro, non solo i movimenti di lotta per la casa dovevano finire, ma la gestione dell’emergenza abitativa doveva tornare in mano esclusivamente ai servizi sociali con la riaffermazione di un approccio assistenzialista, individualizzato, paternalista e gerarchico.
Nello stesso periodo, ci imbattevamo in un altro movimento capace di rispondere efficacemente alle drammatiche conseguenze della crisi ipotecaria e di imporre nel dibattito pubblico il problema della casa: la PAH – Plataforma Afectados Por la Hipoteca. Nel corso degli anni abbiamo visto una delle sue ex militanti diventare sindaca di Barcellona e, anche se oggi, a distanza di otto anni dal primo mandato, si può constatare che anche nella città catalana la crisi abitativa non sia affatto finita (12.500 sfratti eseguiti dal 2016 al 2021), a nostro avviso alcune politiche cittadine hanno segnato un cambio di passo. L’aumento dell’edilizia pubblica, il miglioramento dei servizi sociali con la creazione di un’unità specifica di intervento prima e dopo lo sfratto, la limitazione degli alloggi turistici si aggiungono infatti a un elemento di rottura importante: il riconoscimento, da parte del Comune, dei movimenti della lotta per la casa e delle loro pratiche, incluse quelle illegali, che ha portato a instaurare con essi un dialogo costante sulle istanze relative all’abitare.
Ci riferiamo a questo scenario perché nel corso degli ultimi anni le amministrazioni bolognesi hanno vantato un rapporto privilegiato con Barcellona, arrivando a un’intesa sancita da un Accordo di collaborazione del 2018. Rispetto alle politiche della casa, è del 2020 la produzione di Abitare Collaborare. Bologna_Barcellona, un volume dedicato alle forme del “abitare collaborativo” (scaricabile qui), dall’edilizia cooperativa al co-housing sociale.
La comparazione tra le pagine dedicate ai due contesti rileva come a Bologna scompaia qualunque riferimento alla lotta per la casa e alle sue tematiche: innalzamento degli affitti, aumento degli sfratti, speculazione immobiliare. Bologna sembra una città di fantasmi dove nulla è avvenuto da un secolo. Così la cooperativa Risanamento e la cooperativa Dozza (che si dedicano alla “proprietà indivisa”, fornendo abitazioni dagli affitti bassissimi) diventano esempi ancestrali di una storia di solidarietà su cui far poggiare nuove e futuristiche politiche abitative. Ovviamente non si dice che poco o nulla è stato fatto per sostenere pure le gloriose cooperative citate, come spiegato in una preziosa inchiesta di Zic.it.
La situazione attuale, però, raggiunge livelli di criticità che sembrano superiori a quelli della crisi del 2008-09: una persona su dieci è in povertà, il quarantatré per cento delle famiglie povere vive in affitto e tre milioni di famiglie vivono in condizioni di debolezza abitativa. Il governo Meloni sta aggravando la situazione eliminando le uniche forme di sostegno diretto all’abitare, come il fondo per il contributo agli affitti e per la morosità incolpevole, e prepara il terreno per un’ulteriore bastonata ai movimenti, inasprendo le sanzioni per chi occupa casa. A ciò si sovrappone la fine della moratoria sugli sfratti, entrata in vigore durante la pandemia.
Per una città come Bologna, questa situazione, già di per sé molto grave, assume le caratteristiche di una pentola a pressione. Da una parte, la Regione e il suo presidente, Stefano Bonaccini, spingono per far diventare il capoluogo un polo d’attrazione, lanciando il brand attrattivo dell’Emilia Romagna come luogo della Motor Valley, della Food Valley, della Data Valley, nonché, vista la colata di asfalto in arrivo, della Death Valley. Dall’altra, le diverse amministrazioni cittadine che si sono susseguite negli ultimi anni non hanno fatto nulla per contrastare la speculazione del mercato immobiliare, favorendo, al contrario, i processi di turistificazione.
Un accenno di risposta è stata annunciato il 5 aprile, nell’ambito del convegno Abitare salute e conoscenza nella grande Bologna, dove è stato presentato un piano per la casa da duecento milioni che si sviluppa secondo diverse strategie, condito da parole d’ordine che riguardano la lotta alle discriminazioni, l’innovazione, la collaborazione, l’efficientamento energetico e, infine, il trattenimento dei talenti.
Il piano ha un effetto perturbante: se infatti le amministrazioni si muovono finalmente per fronteggiare la crisi abitativa, le soluzioni proposte guardano ancora al forte sostegno dei privati, in particolare rispetto al tema della cosiddetta “rigenerazione”, che Paola Bonora ha definito come il nuovo core business del mercato edilizio. Sarà opportuno seguire pedissequamente i progetti presentati, che comunque non risolvono i problemi del qui e ora, confermando le difficoltà che l’amministrazione bolognese ha avuto fin dal suo insediamento. Nulla, infatti, viene detto sulla lotta agli sfratti, il cui numero è in aumento sia nel territorio comunale che nella Città metropolitana. A febbraio, lo sfratto di via Bacchi della Lega ha rappresentato l’ennesima storia dell’orrore.
Il problema è sempre più impellente vista la rinascita della turistificazione che, come mostrano i numeri di Inside Airbnb, è tornata ai livelli pre-2020, con conseguenze già evidenti anche per un altro soggetto protagonista della città: gli studenti e le studentesse dell’università, costretti a vagliare annunci scandalosi, come quello che a ottobre raggiunse i media nazionali e che offriva un posto letto su un divano per 350 euro al mese. Gli unici interventi urgenti rispetto alla questione abitativa sono stati finora gli sgomberi, il primo di questi è stato eseguito in via Zampieri a soli due mesi dall’occupazione.
Ascoltare gli interventi del sindaco Lepore e della vice-sindaca Clancy al convegno del 5 aprile ha fatto una certa impressione. Si parla di esperimenti per dare risposte concrete alla crisi abitativa, di nuove forme di abitare comunitario, collaborativo, meticcio. Eppure di questi esempi Bologna ne ha già sfornati parecchi negli ultimi anni, l’ultimo è nato pochi giorni fa. Se le soluzioni non sono tutte immediate, una di queste sarebbe già pronta ed è ampiamente praticata dalla città “gemella” di Bologna: la fine della criminalizzazione delle pratiche dal basso, occupazioni comprese. È forse uno dei pochi modi per uscire dal paradosso di una città che pur diventando sempre più attrattiva (per chi può permettersela) riesce a essere sempre più respingente. (gabriele d’adda e plv)
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