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recensioni
2 Marzo 2018

Macbettu, appunti per un teatro vivo. In dialetto sardo

Francesca Saturnino alesandro serra, coriere della sera, enzo moscato, franco cordelli, interno5, la lettura, macbeth, massimiliano civica, napoli, politeama, rasoi, sardegna, scozia, shakespeare, tan
(disegno di nando gaeta)
(disegno di nando gaeta)

“E poi c’è Macbettu di Alessandro Serra, in dialetto sardo, altro spettacolo che personalmente non vedo l’ora di non vedere (il dialetto è così necessario?)”. Domenica 3 settembre ’17 su La Lettura, settimanale di cultura, libri e spettacoli del Corriere della Sera, se la fece uscire così, il critico del Corriere Franco Cordelli, passando in rassegna le produzioni della stagione ventura tra Roma e Milano. All’epoca, ovviamente, s’infiammò la polemica nel mondo del teatro e sul web, come pure l’ironia della promozione di Sardegna Teatro che invitava a vedere lo spettacolo perché “un posto libero l’ha lasciato Cordelli”. Macbettu ha poi vinto il premio Ubu 2017 come migliore spettacolo dell’anno. Forse neanche Cordelli s’immaginava che sarebbe finita così.

Lo spettacolo, dopo una lunga tournée italiana, è miracolosamente approdato a Napoli, dove di solito i lavori arrivano con una o due stagioni di ritardo, anche grazie al fatto che l’unico teatro stabile del meridione, il Mercadante, non pare interessato ai lavori di ricerca contemporanea ma segue un andamento tutto suo, che varia secondo gli scambi e le ospitate da ricevere/ricambiare con gli altri stabili – anche se ormai è tutto il sistema nazionale che funziona così. Per l’occasione il Tan di Piscinola e Interno 5 hanno fatto ancora una volta quadrato (qualcuno in città l’ha capito che l’unione fa la forza) e sono riusciti a riempire la platea del teatro Politeama con un pubblico, sì molto teatrale e di addetti ai lavori, ma se dio vuole giovane.

Shakespeare, si sa, è una specie di meccanismo perfetto, perciò bisogna saperlo fare. O meglio, bisogna saper trovare la chiave di volta per aprire questo meccanismo ed entrarci dentro, senza farne una mera esecuzione. Ne è un esempio l’Hamlet Travestie di Punta Corsara, acclamato in mezzo stivale. Da questo punto di vista la scelta del dialetto, più che “necessaria” – per riprendere Cordelli – appare veramente calzante. Macbeth è ambientato in una Scozia ancestrale e tribale, dove l’elemento sovrannaturale è presente ovunque. Perciò mettere in scena la tragedia nel dialetto sardo, in particolare quello della Barbagia, parte centrale e montuosa della Sardegna, altro non fa che amplificare il carattere universale del testo shakespeariano, oltre che portare sulla scena italiana i suoni desueti e non conformi di un pezzo del nostro paese che non viene raccontato quasi mai. All’indomani della riforma del teatro introdotta dal ministro Franceschini più di tre anni fa, Massimiliano Civica parlò di una “legge contro il dialetto” che doveva dar retta ai numeri e al consenso di un pubblico mainstream, rendendo difficile la vita di piccole compagnie volte alla ricerca e alla sperimentazione, anche linguistica. Mi è venuto in mente un discorso fatto una volta con Enzo Moscato, a proposito della ripresa di Rasoi in Brasile molti anni fa. Mi raccontò che ci fu una discussione all’interno della compagnia e alla fine si decise di non mettere i sovra-titoli. Lo spettacolo fu un successo. «La Lingua arriva prima alla pancia, poi al cervello», diceva Moscato.

Domenica scorsa, durante la messa in scena di Macbettu, i sovra-titoli scorrevano veloci, ma abbandonarsi direttamente ai suoni ha reso la visione memorabile. Si può dire che questo spettacolo arrivi prima all’orecchio e poi al resto dei sensi dello spettatore: oltre alla lingua, notevole è il lavoro fatto nella costruzione di una scenografia minimale, ma particolarissima perché sonora. Macbettu inizia e finisce con un rumore, e i rumori generati dagli stessi attori in scena – dal pane carasau calpestato, ai tavoli usati come elemento percussivo – sono una specie di drammaturgia nella drammaturgia. Altro elemento importante è l’uso dei corpi: possenti, carnali, che si muovono in una penombra onirica come in un lavoro di teatro danza. Questi elementi, i corpi, il lavoro sui suoni e anche sul simbolico – le streghe shakespeariane declinate in mamutones, l’uso di maschere di corteccia d’albero – fanno emergere tutto il perturbante della dimensione onirica e allucinatoria in cui il testo di Shakespeare ci trasporta. Qualcuno potrà dire che, non fosse per i sovra-titoli, lo spettacolo non è di facile fruizione. Qualcuno, un critico nazionale, può dire com’è uno spettacolo senza averlo visto – può? –, e così è stato. Intanto qui c’è un giovane regista che ha preso un testo scritto secoli fa e lo ha fatto brillare, rendendolo più vivo di gran parte di quello che vediamo a teatro – soprattutto nei teatri stabili – oggi. Personalmente non vedevo l’ora di vederlo… (francesca saturnino)

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