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17 Febbraio 2025
Sarà presentato il 17 febbraio a Napoli, alla libreria Feltrinelli di piazza dei Martiri (ore 18.00), il nuovo libro di Carlo Iannello: Lo Stato del potere. Politica e diritto ai tempi della post-libertà. Con l'autore interverranno Francesco Barbagallo, Salvatore D'Acunto, Valeria Pinto e Massimo Villone.
Pubblichiamo a seguire un estratto dalla postfazione al volume curata da Sergio Marotta.
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Il potere politico è stato, negli ultimi secoli, il potere più forte: concentrato in poche grandi unità territoriali costituenti le diverse nazioni, è riuscito a organizzare e a coinvolgere masse sempre più ampie di popolazione attraverso l’integrazione di un numero crescente di individui singoli e di gruppi.
Le Costituzioni moderne sono state, né più né meno, che i patti tra chi deteneva il potere politico, quello che una volta si definiva il sovrano, e il popolo inteso come l’insieme delle persone che viveva sotto il suo dominio nel territorio da lui posseduto e militarmente controllato. Il sovrano persona fisica è stato, poi, sostituito dal popolo sovrano che si esprimeva attraverso una classe di dirigenti selezionati dalla politica con le procedure della rappresentanza. Il popolo sovrano continuava a mantenere le caratteristiche di un potere politico sovraordinato e assoluto nel senso di non riconoscere nulla al di sopra di sé, ma il potere sovrano del popolo era esercitato nelle forme e nei limiti stabiliti dalle Costituzioni moderne. All’interno del popolo, prima suddito e, poi, a sua volta sovrano, c’erano poveri e ricchi, lavoratori e disoccupati, contadini e operai, industriali e commercianti, religiosi e funzionari, soggetti forti e soggetti deboli. Insomma c’era la società composta da tutti gli individui che vivevano in un determinato territorio e si organizzavano per la propria quotidiana sussistenza.
Nel frattempo il potere economico non era ancora concentrato e organizzato come quello politico. Il potere economico era disperso, impegnato nel suo campo, e cioè nella produzione di beni e servizi e nel loro commercio, rimanendo, anche quando era forte, o subordinato e contenuto all’interno del potere politico oppure in una sua zona diversa e circoscritta rispetto a quella dominata dal potere politico.
Per dirla con Fernand Braudel, che ha a lungo studiato l’evoluzione dell’economia europea e del Mediterraneo: “In tale confronto fra modello e osservazione, ho incontrato continuamente una contrapposizione insistente fra un’economia di scambio normale e spesso abitudinaria (nel Settecento, si sarebbe detto ‘naturale’) e un’economia superiore, sofisticata (nel Settecento, si sarebbe detto ‘artificiale’). Sono certo che tale divisione è tangibile, che gli agenti e gli uomini gli atti e le mentalità non sono gli stessi a questi stadi diversi”. Insomma l’economia funzionava “naturalmente” dentro l’organizzazione politica della convivenza e, contemporanemente, si costruiva i suoi spazi autonomi “superiori” dove, sono sempre parole di Braudel, "comincia una zona d’ombra, e di mezze luci, di attività iniziatiche, che credo siano alla radice di ciò che si può comprendere sotto il nome di capitalismo: è questo un’accumulazione di potenza (che fonda lo scambio su un rapporto di forze altrettanto e più ancora che sulla reciprocità dei bisogni), un parassitismo sociale, inevitabile o no, come tanti altri. Vi è insomma una gerarchia del mondo commerciale, anche se – come in ogni gerarchia, peraltro – i livelli superiori non potrebbero esistere senza quelli inferiori, su cui si appoggiano. Né dimentichiamo, finalmente, che al di sotto degli stessi scambi, ciò che ho chiamato – in mancanza di una migliore definizione – “vita materiale”, costituisce nei secoli dell’antico regime la zona più spessa di tutte". Quella che Braudel chiamava economia della “vita materiale” era né più né meno che la quotidianità dell’esistenza con la sua autorganizzazione delle attività di sussistenza accanto a tutte le altre che l’umanità aveva sviluppato nella sua naturale evoluzione. Mentre l’economia “superiore”, quella legata solo indirettamente alla quotidianità, agiva in spazi autonomi e “artificiali”.
Che cos’è che ha permesso al potere economico di scalzare quello politico e di trasformare il nostro tempo in quella che, più sopra, ho definito “l’età dell’economia”?
Non solo i progressi tecnologici che hanno enormemente aumentato l’efficienza del capitalismo industriale. Secondo la profetica previsione degli anni Trenta del secolo scorso di due studiosi americani Berle e Means, opportunamente richiamata nel testo da Carlo Iannello, sarebbe stata la società per azioni che, rendendo possibile la concentrazione di enormi quantità di capitali, avrebbe permesso a tali forme istituzionali di sostituirsi ai tradizionali Stati politici “come forze dominanti dell’organizzazione sociale”.
Utilizzando la struttura giuridica della società per azioni, oggi le grandi piattaforme tecnologiche – che certo Berle e Means non potevano prevedere nel 1932 – concentrano, insieme a immensi capitali, una quantità sterminata di dati sulla vita dei singoli individui, ben superiore a quella in possesso delle amministrazioni pubbliche, tale da mettere definitivamente nell’angolo l’organizzazione burocratico-statale dei vecchi Stati nazionali e a farla apparire, né più né meno, che una forma di espressione locale di protezione delle tradizioni culturali e della convivenza organizzata su basi solidaristiche.
Se abbiamo considerato lo Stato moderno, per dirla con igmunt Bauman: "[…] quel complesso di regole e norme che, nutrivamo la speranza, trasformassero ciò che è contingente nel determinato. L’ambivalenza nella Eindeutigkeit – la chiarezza –, la casualità in regolarità; in breve, la primitiva foresta in un giardino ben disegnato, il caos in ordine".
Non ci si può meravigliare del fatto che molti abbiano cominciato a pensare che questa funzione ordinatrice potesse essere meglio realizzata proprio dal potere economico che, organizzato nell’impresa privata, si rende conto di aver acquisito uno spazio sempre maggiore anche nella sfera pubblica. Questo fatto spinge il potere economico – e quasi lo costringe – a occuparsi di tutti quei problemi e quelle funzioni che una volta erano affidate all’organizzazione pubblica statuale.
E così, come afferma Carlo Galli nella sua prefazione al libro di Carl Rhodes, opportunamente citata da Iannello, “l’economia non si limita a invadere l’intera società, ma si sostituisce direttamente allo Stato” . D’altra parte, se oggi Stato e grandi società transnazionali che agiscono nel mondo globalizzato dei mercati vengono posti sullo stesso piano, ciò è dovuto, da un lato, al disimpegno dello Stato da molti settori dell’economia – giustificato dall’apparente, e in certi casi effettiva, degenerazione nell’efficienza delle amministrazioni pubbliche oltre che nei comportamenti dei pubblici amministratori – e, dall’altro, proprio all’accentuazione del ruolo pubblico delle grandi società, dei fondi e delle piattaforme.
Il problema è che il potere economico prende le sue decisioni in quei luoghi che già Braudel definiva “zona d’ombra”, “di mezze luci”, di “attività iniziatiche”. I nuovi poteri che si vanno affermando nella sfera pubblica prendono decisioni elaborate nella sfera privata e che valgono per tutti nella sfera pubblica, perché si configurano come nuove normatività.
La caratteristica dell’opacità dei nuovi poteri costituisce l’esatto contraltare del tentativo di realizzare la piena trasparenza che ha contrassegnato lo sviluppo della trasformazione del potere pubblico tradizionale. Il nuovo potere economico si basa non solo sull’affermarsi della forma organizzativa della società per azioni ma anche su una trasformazione strutturale del potere politico che passa dal government alla governance, cioè da un sistema rigidamente gerarchico a un sistema di partecipazione e condivisione orizzontale dei luoghi della decisione politica. Ma il passaggio fondamentale consiste nel fatto che la governance, come ha spiegato, tra gli altri, Maria Rosaria Ferrarese, ha permesso e favorito le “dinamiche di mimetizzazione, di nascondimento, o di vero e proprio inabissamento del potere, attraverso modalità soft e discrete, che tendono a diventare talvolta del tutto invisibili”. Se a ciò aggiungiamo che il potere economico si fonda sempre più sul cosiddetto soft power anziché sul tradizionale hard power legato alla forza militare, alla coercizione e a un rigido criterio di gerarchia, si comprende bene come il problema centrale diventi quello della commistione tra potere politico e potere economico che rende i confini tra sfera economica e sfera politica sempre più incerti e sfuggenti.
Nasce così quello che negli Stati Uniti viene chiamato il capitalismo woke, anch’esso opportunamente richiamato da Iannello. “Capitalismo woke” è l’espressione utilizzata per indicare “il numero sempre maggiore di aziende, soprattutto multinazionali, che si pongono a favore dei movimenti sociali e che utilizzano questo loro schierarsi nelle proprie campagne di informazione e pubblicitarie”. Si tratta però solo di woke washing: “una pratica di marketing e pubbliche relazioni con cui le grandi imprese sperano che, associandosi a cause politiche più che giuste, otterranno il favore dei clienti e, in ultima analisi, un guadagno commerciale”.
Il capitalismo woke non è che un aspetto del “capitalismo politico”: Stati e grandi poteri economici si stanno affrontando come avevano previsto Berle e Means negli anni Trenta del secolo scorso per il dominio sulla società. E gli Stati stanno perdendo l’ultima battaglia contro il potere economico, che ne esce sempre più forte dal momento che utilizza le stesse istituzioni statali per propri scopi, come Iannello evidenzia nel suo lavoro.
Qual è una possibile via d’uscita? (...continua)