“Non era colpa del personale, ma della mancanza del personale”, scriveva Bruno Le Dantec nel suo articolo di qualche settimana fa denunciando la situazione degli ospedali e delle residenze per anziani a Marsiglia e dintorni. Allargando lo sguardo dalla Francia alla Spagna e all’Italia aggiungeva: “Al di là della fatalità del virus, i popoli dei nostri tre paesi non mancheranno di ricostruire il collegamento tra la carenza di mascherine, tamponi, letti, apparecchiature respiratorie […] e la superficialità con cui i governi hanno ignorato i campanelli d’allarme del personale ospedaliero”.
Uno scampanellio che in Italia è diventato ancora più forte da quando l’Istituto Superiore di Sanità ha condiviso i dati sulle fonti di infezione da Covid-19 di circa 4.500 casi accertati nelle prime tre settimane di aprile. Il 44% dei contagi sarebbe avvenuto nelle residenze sanitarie assistenziali (Rsa), trasformandole in quei “cronicari” raccontati da Antonio Esposito pochi giorni fa.
Questi dati non hanno sorpreso medici, infermieri, operatori sanitari, dipendenti delle cooperative e molte altre figure impiegate all’interno delle Rsa, né i parenti degli ospiti, in particolare in Lombardia dove queste strutture hanno registrato quasi duemila decessi da Covid negli ultimi due mesi. È stata l’insistenza dei lavoratori e dei parenti in cerca di spiegazioni a dare avvio alle inchieste della Procura di Milano, poi estese anche alle altre province della Lombardia, per “omicidio ed epidemia colposa” nelle Rsa lombarde.
Oltre alle singole strutture, le inchieste riguardano anche i vertici della Regione Lombardia per accertarne le responsabilità nella diffusione incontrollata del contagio, in particolare in seguito a una direttiva datata 8 marzo nella quale la Regione chiedeva che le Rsa accogliessero pazienti Covid dimessi dagli ospedali per poter liberare posti letto. Mentre numerosi cittadini si sono mossi per chiedere il commissariamento della sanità lombarda e gli organi di rappresentanza dei medici di base hanno espresso la propria preoccupazione per la gestione della “Fase 2” nella regione, la lotta dei lavoratori e dei familiari prosegue in molte Rsa.
È quello che sta accadendo anche ad Abbiategrasso, Bià in dialetto, un comune di oltre trentaduemila abitanti a meno di trenta chilometri dal centro di Milano, in direzione sud-ovest. Una città antica sorta al centro di una campagna feconda e resistente in prossimità delle acque del Ticino. Ad Abbiategrasso il primo caso di contagio da Covid è stato accertato il 9 marzo all’interno dell’Istituto Geriatrico Golgi, un tempo Pia Casa degli Incurabili e oggi parte del sistema di Rsa gestite dall’Azienda servizi alla persona (Asp) Golgi-Redaelli. Oltre alla sede di Abbiategrasso, l’azienda amministra altre due strutture situate a Milano e Vimodrone. Tra il 9 marzo e il 17 aprile il numero degli ospiti contagiati nella Rsa di Abbiategrasso è salito a novanta persone e sono avvenuti trentacinque decessi, diciassette dei quali certamente positivi al Covid e nove sospetti.
Lucio (nome di fantasia) racconta che il padre ottantenne era stato ricoverato all’inizio dell’anno nella parte dell’Istituto dedicata alla degenza residenziale temporanea per persone affette da demenza, l’area “Cure Intermedie ex Riabilitazione Alzheimer”. Suo padre avrebbe dovuto trascorrere lì alcuni mesi per ottenere maggiore stabilità e dare sollievo alla famiglia che stava attraversando un momento di fatica nella gestione quotidiana della malattia. Invece, come quasi tutti gli altri ospiti dell’ex Riabilitazione Alzheimer, si è ammalato di Covid. A partire dal 9 marzo ai parenti è stato definitivamente impedito di far visita ai propri padri e alle proprie madri a causa di alcuni “possibili casi” di infezione nel reparto. Dopo alcuni giorni di insistenza, i parenti hanno avuto la conferma della presenza di casi positivi e sono stati invitati a recarsi presso l’Istituto per ritirare i vestiti dei propri cari, da lavare a casa.
Lucio spiega: «Questa cosa dei vestiti si faceva anche prima però prima entravi più o meno tutti i giorni quindi non si accumulavano, c’era un cesto in camera, li prendevi e portavi quelli puliti. Il primo sabato dopo la notizia dei contagi c’è stato il delirio. Di solito andava mia sorella a prendere i vestiti, ma quando si è saputo che c’erano dei positivi non se l’è sentita perché ha i bambini piccoli. Alla fine sono andato io a prenderli e mia mamma, che ha più di ottant’anni, ha insistito per lavarli a casa sua. Quando sono arrivato fuori dal reparto c’era una montagna di vestiti, qualche operatore dietro un banco che provava a smistarli e i parenti che davano i numeri per sapere dall’istituto come fare a lavarli senza rischiare di infettarsi». Andare a prenderli con guanti e mascherina e lavare tutto a sessanta gradi, queste sono state le istruzioni fornite dal Golgi e seguite dai parenti, tra molte paure. Nel corso delle settimane la distribuzione dei vestiti è diventata più ordinata e i parenti in coda hanno iniziato a conoscersi meglio e a organizzarsi anche con gli operatori della struttura.
Parenti e operatori hanno contestato alla dirigenza del Golgi il silenzio stampa in cui questa si è chiusa a lungo, prima di dichiarare che la quasi totalità dei pazienti dell’ex Riabilitazione Alzheimer erano risultati positivi ai tamponi e che nel reparto c’erano stati due morti da Covid. Mentre i numeri crescevano anche nel resto della struttura, gli operatori si ammalavano e diminuiva il personale in attività, rendendo sempre più faticosa la cura degli anziani ricoverati. In seguito a numerose richieste e rivendicazioni dei lavoratori rimaste inascoltate dalla struttura e dagli enti locali e regionali responsabili della tutela della salute pubblica, Unione sindacale di base (Usb) Lombardia ha presentato un esposto alla Procura di Milano sulla situazione degli istituti gestiti dall’Asp Golgi-Redaelli. Le principali criticità segnalate dagli operatori rappresentati da Usb sono “la mancata assunzione di personale, l’inadeguatezza del numero di tamponi eseguiti a degenti e personale, l’assenza di una strategia di isolamento dei casi positivi, la carenza di dispositivi di protezione individuale, l’incapacità di individuare protocolli di sicurezza certi e univoci per tutta l’azienda, il mancato controllo sull’operato delle ditte appaltatrici in merito alla sicurezza e alla tutela della salute e la mancata abilitazione del laboratorio interno all’analisi dei tamponi”.
Nel corso dell’assemblea “a distanza” del personale (dipendenti e ditte esterne) organizzata dell’Usb dell’ASP Golgi-Redaelli del 20 aprile, Pietro Cusimano ha ripercorso le principali tappe della privatizzazione della sanità lombarda, di cui rappresentano una parte fondamentale le circa seicento Rsa private, su un totale di settecento strutture. Secondo Cusimano il principale interesse delle Rsa sarebbe diventato il profitto e non più la salute. Solo a partire da questo presupposto sarebbe possibile comprendere la progressiva riduzione e precarizzazione della forza lavoro all’interno delle Rsa, dove operano numerosi dipendenti di cooperative esterne. Nel corso dell’assemblea sono stati presentati anche i dati ufficiali forniti dall’Asp Golgi-Redaelli a metà aprile, in seguito alle pressioni dei parenti degli ospiti e dei lavoratori. Il numero dei dipendenti in malattia all’interno dell’istituto è cresciuto vistosamente nell’ultimo periodo, con 114 lavoratori in malattia nella struttura di Abbiategrasso, 145 a Vimodrone e 112 a Milano. Il numero dei dipendenti di ditte esterne attive nell’Asp Golgi-Redaelli in malattia è stato registrato solo a Vimodrone, mentre non si conoscono i dati di Milano e Abbiategrasso. Anche i tamponi, fatti sui dipendenti delle Rsa dopo numerose richieste da parte dei lavoratori, non sono stati eseguiti sugli operatori di ditte esterne, così come non sono stati distribuiti in modo uniforme i dispositivi di protezione individuale.
Nei giorni successivi all’assemblea dei lavoratori i Nas hanno ispezionato la Rsa di Abbiategrasso ed è stata ricostruita la dinamica dell’infezione, poi divulgata dalla stampa locale: il contagio sarebbe entrato nella struttura all’inizio di marzo attraverso due pazienti asintomatiche dimesse da ospedali delle vicinanze e ricoverate nella Rsa per riabilitazioni. Nel giro di alcuni giorni le due donne, di cui una ricoverata nell’ex Riabilitazione Alzheimer, avrebbero presentato i sintomi, quando ormai la diffusione del virus era avvenuta nell’istituto. Ad oggi non sono stati effettuati tamponi sul personale della Rsa di Abbiategrasso, mentre anche in un’altra struttura per anziani presente nel comune sono stati accertati numerosi casi di contagio. Alla lotta dei parenti e dei lavoratori, nelle ultime settimane si sono uniti anche cittadini, giornalisti e militanti locali per chiedere chiarezza e giustizia alle aziende sanitarie e alle istituzioni. Nel frattempo, anche il padre di Lucio non smette di lottare dentro al suo reparto, «come un vero leone del Ticino che è sopravvissuto alle bizze del fiume e non si spaventa di certo davanti al virus». (gloria pessina)