
Nel corso di quest’anno, per celebrare il centenario della propria fondazione, il museo Folkwang di Essen ha organizzato un fitto calendario di iniziative, tra cui una serie di eventi presentata sotto il titolo “Folkwang e la città”, che si appella al nume tutelare di Karl Ernst Osthaus, facoltosissimo collezionista d’arte che negli anni Venti del secolo scorso, oltre che fondatore del museo fu anche mecenate di artisti e di un’idea di progresso sociale in cui le competenze artistiche, artigiane e decorative hanno confini molto fluidi e aspirazioni non confliggenti.
È una domenica mattina quando mi presento al punto d’incontro confermato con una mail e prendo parte all’evento che più mi aveva messo l’acquolina in bocca. Si chiama “mondi paralleli” e sono previste quattro tappe in giornata. Al suo arrivo, il direttore del museo stringe la mano a ogni partecipante, c’è nell’aria una buona tensione. Si sa dove si va, ma non si sa bene come sarà lo svolgimento, c’è un canovaccio, ma non un copione. Il primo dei mondi paralleli che andiamo a visitare è il monastero abitato da dieci suore di un ordine agostiniano. Sulle arcate dell’ingresso si stagliano a lettere dorate le parole che Pierre Fourier, fondatore dell’Ordine, scelse come motto: “Omnibus Prodesse, Obesse Nemini”, essere di giovamento a tutti, non sottrarsi a nessuno. Può suonare vagamente edificante, ma non è male attraversare il portone coronato da questa iscrizione per iniziare la giornata: la prendo come un taglio di nastro con me stesso. Le due suore che ci guidano ci mostrano la chiesa, la sala di lettura e il refettorio, dove a una parete noto un disegno a matita in cui una mano sicura e giocosa ha rappresentato le abitanti del convento e scritto “Wir beißen nicht”, noi non mordiamo. Mi fa riflettere sul fatto che il saio che le suore indossano, molto elegante nella sua austerità, se a prima vista può apparire un modo di marcare una separazione dal prossimo, presto si trasfigura nel simbolo di una scelta che quella persona ha fatto con se stessa. E per fartelo capire, senza volerti vendere una verità a buon mercato, quella persona usa un linguaggio fatto di modi fermi e gentili, che sarebbe bello ritrovare anche in tante persone che sostengono le proprie ragioni in jeans e t-shirt. Per suor Regina non è motivo di vergogna raccontare che, quando va in stazione a prendere un treno, deve ascoltare commenti bonari ma non per questo meno offensivi sul suo abito. Ma non le manca neanche la simpatia di ammettere che sul tram più di un controllore non ha voluto vedere il suo titolo di viaggio, dando per scontato che una suora non si permetterebbe mai di viaggiare a scrocco.
Attraverso il giardino del convento usciamo dall’altra parte dell’isolato e lungo l’altro lato della strada si distingue già inequivocabile il filo spinato che a matasse corre lungo gli angoli dei vari bracci della prigione. Come in tutte le città in cui la prigione non si è mai spostata da dove si trovava già da un secolo e più, anche a Essen il luogo in cui vengono raccolte le persone che un tribunale priva della libertà si trova immerso nel tessuto urbano. L’incontro con il prossimo mondo parallelo è moderato dall’ufficio stampa del carcere, che è anche responsabile del coordinamento dei programmi di apprendistato al lavoro rivolti a chi è finito in galera ancora molto giovane e per delitti che escludono una permanenza molto lunga dietro le sbarre. E da un’artista che racconta del suo lavoro con i ristretti che seguono il corso settimanale di pittura. Non è bellissimo mettere al centro del discorso persone che non possono esserci: di domenica non sono ammesse persone esterne al carcere, ma il museo nel programma aveva inserito anche un incontro con i carcerati, che era stato moderato dall’ufficio stampa pochi giorni prima. Il lavoro mi ha impedito di andarci. Una signora che è di nuovo nel gruppo di oggi ne parla commossa. L’ufficio stampa fa il suo lavoro con professionalità e bisogna prendere atto, con sollievo, che qui e oggi professionalità significa anche molta trasparenza di fronte alle criticità. Mi colpisce sentire che la maggioranza delle circa cinquecento celle è per una sola persona e che questo risponde a un’idea di fondo del sistema carcerario tedesco di garantire per quanto possibile a ogni carcerato di potersi ritirare in uno spazio di intimità personale al di fuori dell’ora d’aria e delle altre occasioni di socialità. Viceversa, carcerati stranieri che hanno fatto esperienza di carcere anche nei paesi d’origine, e sovente sono traumatizzati da esperienze di tortura, hanno delle celle singole l’impressione di un arbitrario inasprimento della pena: le reazioni negative sono state tali da indurre ad affrontare il problema aumentando il numero delle celle per due o tre persone e cercando di mettere insieme persone della stessa nazionalità, in modo che chi aveva un’esperienza più lunga della situazione locale potesse fare un quadro realistico al nuovo arrivato. A parole sue. E nella madrelingua condivisa. L’addetto stampa non dice che nell’istituzione totale per cui lavora non ci siano problemi, anzi sottolinea che a volte la sfida più grossa è antevedere i problemi che potrebbero sorgere, come per esempio rendersi conto di chi è a rischio di suicidarsi ed evitare che lo si lasci dormire da solo. Come nel resto del mondo, anche in Germania i suicidi in carcere succedono, ma che la macchina organizzativa si ponga il problema di come cercare di prevenirli, piuttosto che ricorrere al principio di cacciare la polvere sotto il tappeto, sicuramente dovrà pure contribuire a sottrarre qualcuno alla sua cieca disperazione. Anne Berlit è un’artista che da anni lavora una volta alla settimana con i carcerati. Dalla sua testimonianza emerge la gioia equilibrata di chi sente di aver vissuto una trasformazione positiva attraverso un’attività cui all’inizio si era accostata molto titubante. Non manca di sottolineare che i mezzi offerti per il suo corso costringono a circa due mesi d’attesa chi fa domanda di partecipazione, come non manca di dire, con gusto e orgoglio, di aver infranto tante volte il rigido regolamento, come ogni volta che un prigioniero le ha chiesto di fotografarlo davanti a una sua tela e di fare arrivare la foto a qualche parente. L’addetto stampa non fa una piega: mi piace quando nell’aria si condivide il pensiero che, là dove ci sono dei problemi, nessuno debba sentirsi in dovere di minimizzarne la portata, se non negarne l’esistenza, ottenendo solo di crearne un altro e ancora più grande: quello di mostrarsi persone che mai s’incontreranno né si riconosceranno.
Per la terza tappa il museo fa salire i visitatori su un bus e ci porta nella riserva dei supermilionari di Essen. Negli Stati Uniti si chiamano gated communities, sono le enclavi in cui i ricchi si autorecludono e instaurano una legislazione privata che vale al di qua dei muri e dei cancelli di separazione. In Europa non è (ancora) possibile che gruppi di supermilionari si coalizzino per privatizzare interi pezzi di città, ma di fatto – e con gradazioni diverse – di gated communities ce ne sono. Muri divisori non ce ne sono, ma chi va a farsi una passeggiata per strade che pure sono pubbliche può rapidamente sentirsi a disagio. La trovata abbastanza geniale è che il mentore di questa passeggiata, un facoltoso collezionista e mercante d’arte, è egli stesso abitante dell’enclave. Per strada non s’incontra nessuno, tranne i servizi di vigilanza privata che pattugliano il territorio giorno e notte. Un idillio di pace armata. La nostra guida sottolinea che fino all’immediato dopoguerra questa zona aveva conservato la sua originaria vocazione agricola, poi i proprietari delle cinque masserie sparse sull’area iniziarono a vendere a pezzi i propri suoli. Nei primi anni del secolo qui ci ho lavorato spesso, imbucando lettere per questi viali che sembrano estensioni di giardini privati. L’ultima volta c’ero stato nel 2010 e mi impressionò vedere un paio di cantieri faraonici da cui si intuiva che stavano sorgendo delle ville di sapore hollywoodiano. Ebbi netta l’impressione che quello era un riflesso locale della crisi finanziaria dell’anno precedente, che aveva innescato un’accelerazione micidiale al processo di concentrazione della ricchezza. Tornandoci in bus come visitatore museale dopo oltre dieci anni, ho visto che le ville hollywoodiane hanno sostituito in grande copia case costruite quaranta e cinquanta anni prima da gente sí ricca, ma libera dall’ossessione di mettersi come in posa con il gomito sul cappello degli altri. Con risultati che a volte, a chi ha fatto salvo un minimo senso del buon gusto, fanno solo pensare: mi vergogno io per te. La nostra guida è molto sardonica, si vede che con il direttore del museo ha una consuetudine ben collaudata e spizzica aneddoti dolceamari su abitanti dell’enclave. Fatti che per lui sono evidentemente anche pettegolezzi di vicinato. E in questo modo, con la giusta sprezzatura, ci ricorda che, piaccia o meno, è lui stesso un pezzo di questo mondo parallelo. E mentre passiamo davanti a una villa dove il tempo sembra essersi fermato e che sembra attendere solo l’arrivo della prossima ruspa, non manca di dire che l’anziana coppia che la abitava ha disposto che i suoi completi beni andassero in eredità al museo Folkwang, come a dire che, un secolo dopo Osthaus, da queste parti, tra i ricchi, i mecenati non si sono ancora estinti. Ma il momento più spiazzante Thomas Olbricht lo offre con una breve deviazione nel cimitero di quartiere. Con felice intuizione dice che in questo quartiere non c’è solo la gated community dei vivi, ma anche quella delle salme e precisamente di quelle dei membri della famiglia Krupp, originaria di Essen, che costruì le sue immense fortune riempiendo di acciaio per circa un secolo le vele del militarismo tedesco. Finché non colò tutto a picco. Effettivamente, l’area in cui sono sepolti i Krupp è delimitata da una rete metallica verde, non troppo alta, ma aperta solo in un punto del suo lungo perimetro. La battuta sul gated cemetery mi colpisce: è la prima volta in ventun anni che sento una bella battuta ironica sulla famiglia Krupp, la cui memoria altrimenti rappresenta i Penati della città, il kerygma inviolabile dell’identità locale. E mi piace credere che non sia un caso che succeda proprio durante questa passeggiata.
Il bus ci porta all’appuntamento con l’ultimo mondo parallelo in programma: uno shisha-bar a ridosso dei brutti palazzoni costruiti negli anni Settanta per ospitare la neonata università cittadina. Gli shisha-bar, nel pregiudizio diffuso del sentire dominante, sono percepiti come luoghi un po’ oscuri, possibilmente di malaffare, in cui immigrati e figli di immigrati si isolano in una socialità a circuito chiuso fumando la pipa ad acqua, che diventando spesso simbolo di uno stigma etnico e sociale ha prestato il suo nome al linguaggio corrente per definire questa tipologia di locale. Il Folkwang ha scelto questo shisha-bar per ospitare una discussione sulla condizione dei “Geduldeten”, i tollerati, decine di migliaia di persone che sono entrate in Germania senza poter dichiarare un’identità confermata da un passaporto e possono restare solo in quanto formalmente tollerate. I figli che nascono in Germania ereditano lo status dei genitori: diventati grandi e con o senza un titolo di studio, come i genitori, non possono lavorare e possono solo vivere della carità pelosa di uno stato che omette di ricorrere alla pratica della deportazione solo perché quasi sempre queste persone appartengono a minoranze etniche che gli stati balcanici o mediorientali da cui erano fuggite negano che abbiano mai vissuto stabilmente sul proprio territorio.
A metà del primo intervento arriva come una scossa vivificante l’evidenza che l’ultimo mondo parallelo che il museo è andato a visitare e ad ascoltare nella città non è lo shisha-bar, ma sono i corpi e le vite di persone trasformate in fantasmi da uno zelo ottuso e disumano. Parlano attivisti dell’associazione Laissez-passer, che hanno vissuto per anni sulla propria pelle questa condizione, si parla del documentario Trapped by law, del filmmaker rom Sami Mustafa, che racconta la vicenda dei fratelli Kefaet e Selami Prizreni, cresciuti a Essen dove i genitori si erano rifugiati. Dopo che il Kosovo ebbe firmato accordi bilaterali con molti paesi europei, tra cui la Germania, per rimpatriare chi anni prima era sfuggito alla guerra, questo per molti ragazzi come Kefaet e Selami, che parlano tedesco e si sentono tedeschi, comportò una deportazione coatta, che avvenne con intransigenza disumana. Alla fine del 2015 il documentario fu presentato in anteprima a Essen in presenza del sindaco neoeletto. Si mossero delle cose, la regione ha intanto approvato il cosiddetto “modello di Essen”, che pur non avendo gli strumenti né il potere di riconoscere un’identità formale ai “tollerati” che hanno frequentato qui la scuola, introduce almeno lo stato di eccezione di dare accesso a corsi di avviamento professionale o a studi universitari.
La giornata è finita, queste visite proposte dal museo sono iniziate alle dieci e durate fino alle diciotto e anche oltre, per chi vuole scambiare una parola davanti al buffet allestito sul bancone dello shisha-bar. Tutti i partecipanti sono visibilmente frastornati, ma ognuno di loro mi fa pensare a un pugile che resta in piedi fino all’ultimo gong e guadagna il suo angolo cullando l’idea di vincere ai punti. Diversamente da Thomas Olbricht, che dopo il suo intervento ha preso congedo dal gruppo restando nel suo mondo parallelo, suor Regina, a casa della quale si erano aperti i confronti, è rimasta con i visitatori facendosi lei stessa visitatrice di altri mondi paralleli. E nello shisha-bar, senza recedere di un centimetro dalla sua compostezza, ascoltava con grande partecipazione i racconti degli apolidi di madrelingua tedesca cui la Germania nega la cittadinanza nascondendosi dietro piccoli obbrobri formali. Non so se un’arte concepita per queste vie possa risolvere dei problemi, ma chi l’ha detto poi che l’arte dovrebbe risolvere problemi, a parte i soliti politici di turno a cui prima delle prossime elezioni iniziano a bruciare il culo prima e la cattiva coscienza poi? Certamente ho l’impressione che un’arte così possa aiutare le persone a sentire il bene prezioso di essere comunità aperta. (pasquale guadagni)