Si svolgerà il 7 febbraio a Roma la prima iniziativa pubblica organizzata dalla piattaforma Morire di pena. Per l’abolizione di ergastolo e 41bis. A partire dalle 18:00, al centro culturale Monk (via Giuseppe Mirri, 35), interverranno l’avvocata Caterina Calia, i professori Luigi Ferrajoli e Franco Ippolito, l’ex senatore e presidente dell’associazione A buon diritto Luigi Manconi e la scrittrice Elena Stancanelli. Seguiranno alcune letture a cura di Ascanio Celestini e Caterina Corbi.
Proponiamo un breve estratto dal saggio Abolire il “carcere duro”, di Luigi Manconi, Stefano Anastasia e Valentina Calderone già pubblicato da Dis-Crimen nel settembre 2018.
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Il dato più rilevante emerso dall’indagine conoscitiva della Commissione straordinaria per la promozione e la tutela dei diritti umani del Senato riguarda la totale assenza di connessione tra alcune privazioni disposte nell’ambito di questo regime e la sua finalità. Il “carcere duro” (formula assai diffusa eppure totalmente impropria) è stato infatti introdotto nel 1992 nei confronti di detenuti per alcuni reati (la cui sfera si è progressivamente estesa anche oltre la criminalità organizzata), per reciderne i legami con le associazioni di appartenenza. […]
Questo nesso funzionale tra restrizioni imposte ed esigenza di rompere i legami con l’esterno è risultato, in troppi casi, carente, rischiando così di violare quei limiti interni sanciti dalla Consulta per la legittimità del regime in questione. Si pensi, per esempio, alla privazione sensoriale ed emozionale derivante da divieti quali quello di contatto fisico con i figli durante i colloqui, o di disponibilità di un certo numero di bloc notes o di una tela e dei colori per dipingere in cella, ovvero della impossibilità di cumulare le ore di colloquio non fruite con quelle ancora disponibili. In che modo tali divieti possono ritenersi davvero funzionali a impedire il collegamento del detenuto con l’organizzazione criminale di appartenenza? Dipingere in cella può davvero servire a rafforzare il vincolo associativo o non può , invece, favorendo l’espressività e l’elaborazione intellettuale, contribuire a quel percorso rieducativo cui la pena deve tendere, rifiutando ogni visione deterministica in favore di un’irrinunciabile scommessa sull’uomo? È realmente indispensabile, per quelle ragioni di sicurezza che, esse sole, giustificano una tale deroga al regime penitenziario comune, negare alle visite dei bambini un lasso di tempo ulteriore e autonomo rispetto a quello per i colloqui con gli altri familiari?
Ancora, non si comprende perché le esigenze di rescissione dei vincoli associativi debbano implicare la deroga, riscontrata in molti istituti, a standard minimi di abitabilità. Né in alcun modo riconducibile a queste esigenze di sicurezza appare la violazione della riservatezza del rapporto medico-paziente o di quello con figure istituzionali di tutela dei diritti dei detenuti, derivanti dal controllo visivo e finanche auditivo da parte del personale di polizia. […]
In tal modo, quello che dovrebbe essere un sistema di vincoli strettamente funzionali a esigenze di sicurezza rischia di degenerare in un mezzo di pressione psicologica sui detenuti perché si dissocino dall’organizzazione di appartenenza o cooperino con l’autorità giudiziaria. E soprattutto […] rischia di far degenerare il 41bis in un regime crudelmente afflittivo, con finalità meramente segregative e di neutralizzazione non tanto e non solo della pericolosità sociale del detenuto, quanto delle sue capacità di relazione e in senso lato della sua stessa personalità. Come ha sottolineato più volte il Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, infatti, le restrizioni alle attività e alla socialità interna all’istituto disposte con il 41bis, se prolungate nel tempo, possono pregiudicare gravemente la salute fisio-psichica del detenuto, determinando forme di alienazione e vero e proprio decadimento cognitivo. Il diritto – scrivevano Max Horkheimer e Theodor Adorno – è la vendetta che rinuncia. Le degenerazioni retributive determinatesi nell’applicazione del 41bis (sofferenza imposta per sofferenza inferta) rischiano di far sfumare quella distinzione essenziale tra giustizia e vendetta, che è il presupposto irrinunciabile di uno Stato di diritto. (luigi manconi)