
(kaf)
Dopo il sisma del 1999, le iniziative organizzate dagli abitanti hanno risvegliato l’interesse di amministratori e costruttori per i quartieri del centro. E adesso li trasformano a modo loro, alzando i prezzi e mandando via chi ci abita
Di Sulukule non ne avevo ancora sentito parlare. Solo, a un certo punto, con uno strano lampo di memoria, mi ricordai che Can, meglio noto nel quartiere come Kemanci, il violinista, dopo le ore trascorse in alcuni bar per lavorare suonando, si metteva il violino in spalla, scendeva per ripide viuzze, attraversava il Corno d’oro e dopo un bel po’ di cammino rincasava proprio in una piccola abitazione a Sulukule, a ridosso delle vecchie mura teodosiane. Non era un caso che abitasse lì, ma lo scoprii solo tempo dopo.
Can, come molti dei musicisti che, soprattutto di sera, arrivavano nel quartiere di Beyoglu, il cuore della Istanbul europea, era di origine rom. Beyoglu, attraversato da una lunga e densa strada pedonale, l’Istiklal caddesi, via dell’Indipendenza, tutta vetrine, luci e musiche dissonanti che sputano fuori i negozi, i bar sulla strada e quelli al primo, secondo o quinto piano delle palazzine inizio novecento, rappresenta con l’insieme dei locali per tutti i gusti e tutte le tasche a disposizione di turchi e stranieri, ma anche di curdi o africani, uno spazio di lavoro dove i musicisti itineranti si guadagnano da vivere senza farsi troppa concorrenza tra loro.
Can il violinista lo incontravo spesso al “Captan Ahab”, un piccolo locale sotto casa, frequentato per lo più da gente del quartiere, di fronte alla Torre di Galata, piazza centrale del vecchio quartiere levantino di Istanbul, ancora pieno di piccole botteghe, negozi alimentari e commerci di poco interesse turistico. Al calar della sera, quando l’illuminazione restava flebile e il viavai commerciale finiva, era considerata allora una zona pericolosa, da evitare. Can arrivava alla fine della serata, dopo aver lavorato altrove, per rilassarsi finalmente tra amici. Una particolare routine. La stessa che portava Ömer, il proprietario del locale, ad affacciarsi alla vista di un furgone della Polis, allungare il consueto obolo che sopperiva alla mancata licenza per la vendita di alcolici, abbassare quindi la saracinesca a metà e trasformare il piccolo locale in uno spazio privato, allietato dalle note del violinista.
Il quartiere di Galata in pochi anni ha cambiato faccia, e non solo il pavé a terra. Intere palazzine sono state acquistate da imprenditori americani e non, per poi essere affittate in dollari se non in euro a cifre degne di Parigi o Londra. Gli alimentari sono scomparsi, non c’è più il falegname nel sottoscala, né Murat e il suo garzone che facevano le scritte con i neon. “Captan Ahab” si è trasferito qualche metro più distante: pieno di turisti, non ha più i suoi habitué, e nemmeno il violinista della notte. Quasi nessuna traccia resta dell’esplosione che colpì, verso la fine del 2003, la sinagoga, lontana cinquanta metri dalla torre, se non una barriera che impedisce di camminare sul marciapiede antistante. La zona ora è pulita e sicura. Galata è tra i primi quartieri ad aver sperimentato la politica di rapida trasformazione urbana che interviene a macchie di leopardo in tutta la metropoli a partire dal 2000.
Il terremoto che nell’agosto del 1999 devastò molti quartieri di Istanbul e tutta la regione del Mar di Marmara rivelò come un’urbanizzazione selvaggia unita alla corruzione degli amministratori e agli interessi dei costruttori avesse minato le fondamenta della città. Allo stesso tempo, suscitò un’ampia partecipazione degli abitanti a una riqualificazione concreta del territorio che andava ben oltre la situazione di emergenza e affermava l’importanza di una progettualità a lungo termine. A Istanbul il governo locale è nelle mani del partito islamico dal 1994. Nel corso degli anni i vari sindaci di quartiere hanno imparato a usare parole come società civile e democrazia partecipativa. Le tante iniziative degli abitanti per scoprire la storia di alcuni quartieri, le potenzialità fino ad allora affogate nei calcoli elettorali hanno risvegliato l’interesse degli amministratori. Allo stesso tempo, i costruttori e gli imprenditori privati hanno cavalcato l’ondata di riflusso del terremoto: il crollo dei prezzi dei terreni e delle case.
Dal 2000 c’è un gran parlare di Istanbul come città internazionale, moderna, competitiva e attraente. Città globale di servizi, dalla finanza al design, mentre l’ultimo polo di arte contemporanea è stato di recente inaugurato dal delfino dell’attuale primo ministro ed ex sindaco di Istanbul Recep Tayyıp Erdogan. Una valanga di investimenti puntano a trasformare la città in un polo del turismo degli affari e a darne un’immagine nuova, seducente. Ma non c’è marketing senza restyling e viceversa. Non si tratta infatti solo di cantieri di idee. Molte piccole zone sparse in tutta la città subiscono giorno dopo giorno demolizioni a cui seguono gru, impalcature e muratori di tutte le età. Se fino alla fine degli anni Novanta l’interesse dei costruttori era proiettato verso le aree edificabili della periferia, dove spesso erigevano anche le site, parchi superprotetti per famiglie ricche, oggi gli occhi sono puntati verso i quartieri interni alla città, finora abbandonati a se stessi, considerati covi malfamati. Uno di questi è Sulukule, dove abitava il mio amico violinista. Il quartiere, che si trova ai margini della municipalità di Fatih, una zona storica sul Corno d’Oro, a forte presenza di musulmani praticanti, è noto perché rappresenta la residenza storica della popolazione rom di Istanbul. Dopo essersi insediati già nella vecchia Bisanzio, in seguito alla presa di Costantinopoli, nel 1453, si stabilirono in modo definitivo nelle stradine di Sulukule, tramandandosi di generazione in generazione gli usi, i costumi e il talento musicale. Ancora oggi, questo quartiere, composto da piccole case basse a due piani dove vivono oltre tremila rom, è considerato il centro della cultura rom e la culla di un ampio patrimonio musicale.
Dall’ottobre scorso a Sulukule sono stati demolite oltre cinquecento case. Si tratta dell’attuazione di un grande “progetto di trasformazione urbana” che prevede il rifacimento “in stile” degli edifici e la ristrutturazione di fontane e moschee, ma soprattutto il trasferimento della popolazione in un altro distretto. Le autorità locali dicono di voler preservare una parte storica della città dal degrado, salvaguardarne la memoria e la cultura, ma al di là della ristrutturazione di facciata e del miraggio turistico non vi è alcuno spazio per la salvaguardia della preesistente struttura sociale ed economica. Gli abitanti, per lo più vecchi occupanti e affittuari, lamentano di non essere stati coinvolti e non credono ad alcuna promessa. La ricostruzione di Sulukule è affidata al TOKI, una sorta di Ente pubblico per le case popolari, dipendente direttamente dal governo, che dietro l’urgenza decennale di alloggi pubblici, controlla una grossa fetta del mercato immobiliare. A Istanbul il TOKI appalta i lavori di costruzione a una società privata, la Kiptas, fondata nel 1995 dalla Municipalità metropolitana. La Kiptas, che all’origine era destinata all’edificazione di alloggi a basso costo, ha alzato i propri standard e si è messa a costruire anche alloggi di lusso. A Sulukule ciò che propone il TOKI è la vendita delle nuove abitazioni a un tasso di prestito basso e a lungo termine, a cifre comunque irraggiungibili per gli abitanti del quartiere. Che, intanto, sono obbligati a lasciare le proprie case, anche se non ne hanno di alternative.
Le proteste degli abitanti sono servite a rallentare solo in parte l’azione delle ruspe. Nel frattempo una grossa mobilitazione ha coinvolto il resto di Istanbul, la Turchia intera, oltrepassando i confini nazionali. Il Parlamento europeo ha scritto all’inizio di maggio al capo del governo turco e una commissione dell’Unesco ha visitato il quartiere per verificare la validità del piano.
Se in Turchia la protesta si è avvalsa del sostegno di associazioni, Ong, architetti e militanti politici e si è costruita attorno alla difesa più generale dell’uso del territorio e degli spazi pubblici da parte degli abitanti, l’interesse internazionale si è concentrato tutto sul lato più manifesto e mediatico della questione: il progetto di trasformazione urbana viene letto come una violazione dei diritti umani nei confronti dei rom e della loro cultura.
Ciò che sta avvenendo a Sulukule, tuttavia, nonostante la specificità e l’importanza della storia radicata in quel territorio, segue dinamiche che attraversano tutte le altre grandi città d’Europa. È anche questo il modo di preparare l’adeguamento del paese alle norme dell’UE. E non a caso nel 2010 Istanbul sarà capitale europea della cultura. Per quella data Sulukule e altri quartieri del centro potranno offrire caratteristici resort dove fare esperienza di un tipico pacchetto di cultura locale confezionato. (lea nocera)