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Una panoramica sui nuovi consumatori di stupefacenti e sull’evoluzione della formazione al lavoro per gli adolescenti

(malov)
Dalla metà del ‘900 il fenomeno delle droghe è principalmente legato alle giovani generazioni e, quindi, il loro consumo è caratterizzato dalla sempre mutevole condizione giovanile, rivelandosi un suo effetto e non, come erroneamente si crede, una causa. La cadenza generazionale è essenziale per qualunque monitoraggio sulle sostanze stupefacenti, oggi più che mai, dal momento che viviamo uno sfasamento notevole tra le culture della prevenzione e della terapia rispetto alle tipologie del consumo. In questa breve disamina possiamo certificare solo alcune delle caratteristiche del consumo contemporaneo di droga, per altre bisogna ricorrere alle opinioni dei consumatori e degli operatori terapeutici a causa delle mutate condizioni della tossicomania.
Cocaina ed alcool sono le dipendenze primarie di oggi. L’uso di cocaina è un viatico verso le multidipendenze, si combina soprattutto con alcool ed eroina, mentre quest’ultima ha smesso di essere la grande mattatrice delle sostanze stupefacenti. Numerosi sono i casi di eroinomani che passano alla cocaina, per lo più tossicomani maturi, anche per la maggiore disponibilità sul mercato o per il tentativo di passare ad una sostanza meno invasiva sul piano comportamentale. Tale distorsione riguarda molti degli attuali consumatori di cocaina, in quanto l’autodefinizione di tossicomane è solo da poco in uso tra loro, dopo una fase in cui, a causa dei suoi effetti non emarginanti, si è percepita questa sostanza come “gestibile”. Il tema della cultura, ovvero dei modi attraverso cui si percepisce la droga, è fondamentale in questa fase di diffusione della cocaina. La cultura prevalente verso le droghe è, oggi, ancora tarata sull’esperienza storica dell’eroina, gran parte dei programmi terapeutici sono orientati verso questo oppiaceo (ad esempio, non esiste un equivalente farmacologico del vecchio metadone) e il confronto che un cocainomane fa di se stesso con il modello acquisito di tossicomane – l’eroinomane, emarginato e decadente – lo induce a rafforzare la sua idea di “gestibilità” della sostanza. Siamo in un una fase in cui la sovrapposizione tra tossicomane ed eroinomane comincia da poco a risultare inefficace. Armando, un operatore nel settore delle tossicodipendenze, afferma: “L’età di assunzione della cocaina si è molto abbassata ed è entrata a livello dell’adolescenza. Da poco abbiamo attivato dei cicli di incontri con insegnanti delle scuole superiori per formarli a saper identificare e, quindi, a relazionarsi con i consumatori di cocaina, visto che l’uso tra gli studenti è crescente”.
Il consumo tra i minori è in prevalenza di tipo occasionale, più legato al tempo libero e, nelle sue implicazioni, dipende dall’estrazione sociale del soggetto e dalla disponibilità economica familiare. La trasversalità sociale del consumo è dovuta anche alle dimensioni del mercato (e agli investimenti della criminalità organizzata italiana, grazie alle sue partnership con quelle dei paesi coltivatori) capace di offrire la cocaina a prezzi assai inferiori a quelli di dieci anni fa e in dosi differenziate che partono anche da 10 euro. “I cocainomani che abbiamo intervistato – continua Armando – ci raccontano di serate passate con pochi amici, chiusi in casa, col solo obiettivo della sniffata. La cocaina ha raramente degli obiettivi di socializzazione, viene vissuta nel privato, in un esiguo gruppetto di persone, costruendo poco a poco un muro tra sé e il mondo. Anche i vecchi eroinomani sono quasi tutti passati alla coca, se la iniettano e in poco tempo riducono a pezzi il loro sistema venoso”.
Sono molti i motivi per cui la cocaina ha tanto successo tra i giovani. Oltre al suo carattere ricreazionale, essa fa capo ad un trauma non tanto personale, come avveniva per l’eroina, ma sociale: è una risposta, illusoria, per stare al passo con una realtà frenetica e narcisistica. “I cocainomani si presentano sempre con una grande cura della persona e delle apparenze – racconta Vito, anche lui operatore nelle tossicodipendenze -. Molti di loro scelgono di rivolgersi a noi per affrontare una crisi momentanea in cui li ha trascinati la sostanza. Risolta questa, dobbiamo aspettare la prossima crisi per rivederli”. Oltre che attraverso la consueta sniffata, la cocaina si diffonde sempre più nella modalità di inalazione – il crack – dando vita ad assunzioni molto più frenetiche, ad effetti confusionali e ad una dipendenza disperata che spinge spesso a commettere reati per procacciarsi i soldi necessari all’acquisto, ripetuto di continuo nelle ore di attività.
“La componente sociale dei consumatori è importante – specifica Vito -, e dà vita a comportamenti diversi. Quando i loro figli entrano in contatto con noi, le famiglie più abbienti sono più presenti ed hanno degli strumenti culturali maggiori con cui possiamo interfacciarci, ma sono molto più pressanti e vogliono dei risultati immediati, stentando ad affidarsi e ad accettare i percorsi terapeutici che costruiscono pian piano la soluzione del problema. Le famiglie più povere, invece, sono meno presenti, meno pressanti, si affidano di più ma delegano anche di più, molto spesso perché le loro esigenze di sopravvivenza economica non gli permettono di stare troppo dietro ai problemi dei figli”.
Abbiamo finora detto che la cocaina è la sostanza principale del consumo moderno, ma di quale cocaina si tratta? Risponde Armando: “Dovremmo parlare di ‘cocaine’ e non di cocaina, perché di principio attivo della coca, nelle sostanze diffuse almeno a Napoli, ce n’è ben poca. Il taglio della sostanza è fatto nei modi più impensabili, molto spesso si tratta di anfetamine, di psicofarmaci ed altre sostanze sintetiche che cambiano completamente gli effetti sul consumatore. Queste composizioni misteriose, affidate alla chimica elementare degli spacciatori e alle loro avidità di profitto, aumentano gli stati confusionali e le patologie connesse all’abuso di sostanze. Quindi, ogni volta che incontriamo un nostro utente, dovremmo chiederci di quale sostanza lui è dipendente”. (maurizio braucci)

(cyop, kaf, malov, luca dalisi)
A Napoli, sino alla fine degli anni Settanta, per i ragazzi vi erano migliaia di occasioni di formazione al lavoro: molte botteghe, tutti i bar e tanti altri esercizi commerciali facevano lavorare ragazzi e adolescenti più adulti, vittime del lavoro minorile, per insegnargli un mestiere o comunque fargli guadagnare qualche soldo, evitandogli così di restare in strada e nel degradante non far niente. Peppino Girella, il personaggio della novella Lo Schiaffo di Isabella De Filippo, è emblema di questa figura storica del proletariato precario napoletano. Ben poca consistenza invece hanno avuto le scuole professionali: gli oratori salesiani ben organizzati nelle regioni del nord, qui in città non sono mai decollati. La stessa scuola edile è risultata selettiva e poco includente. La formazione professionale è stata tradizionalmente un’area di cattivo uso della spesa pubblica, orientata con criteri sostanzialmente inefficaci. I corsi autofinanziati proposti dagli enti di formazione costituiscono una diversa nicchia di mercato che sostanzialmente non intercetta la categoria dei drop out.
Qualche istituzione tipo educandato ha prodotto esiti troppo limitati. E pensare che vi era la grande tradizione del serraglio, il mega istituto localizzato nell’Albergo dei poveri ove i ragazzini reclusi, anche se con metodi non proprio montessoriani, venivano addestrati al lavoro artigiano.
Nei primi anni Novanta, dopo un’approfondita conoscenza delle botteghe del centro urbano ove regnava il lavoro nero, maturò in alcuni di noi dell’Associazione Quartieri Spagnoli la convinzione che la socializzazione alla cultura del lavoro era una delle dimensioni del capitale sociale che per i ragazzi poveri andava maggiormente sostenuta. Proprio la diffusa presenza di migliaia di micro imprese artigiane nel centro urbano è stato un punto di partenza per avviare progetti di formazione per ragazzi drop out, limitando al massimo i laboratori in simulata e facendo andare invece i ragazzi direttamente nelle botteghe, nel vivo delle attività. Si partiva da una convinzione ancora oggi molto valida: il contesto lavorativo, pur con limiti ed ambiguità – si pensi ad esempio alle condizioni di sicurezza – è molto più credibile, attraente ed avvincente per i ragazzi che di scuola non ne vogliono proprio più sapere. Molto spesso si è constatato che ragazzi che assumevano comportamenti distruttivi nel contesto d’aula, mostravano responsabilità e capacità di adattamento nelle botteghe.
Negli anni recenti le prime esperienze sono state fatte con alcuni progetti cofinanziati dalla Legge 216/91 e poi con i fondi della L.285 (il progetto officina del Comune di Napoli). Alcune poche organizzazioni hanno realizzato diverse edizioni di progetti di formazione con ampio ricorso a tirocini presso botteghe, grazie soprattutto a progetti cofinanziati con i fondi europei. In diversi quartieri popolari alcune agenzie come pure i Maestri di Strada con il progetto Chance, hanno realizzato esperienze di questo genere, per decine di ragazze/i, riportando talvolta risultati significativi, non tanto in termini di assunzioni dirette (che in qualche caso pure ci sono state), ma con il reale innalzamento del livello di occupabilità dei ragazzi che, oltre a non essere esposti ai rischi del bighellonare fra casa, vicolo e bigliardo con i videogiochi, hanno fatto significative esperienze di socializzazione al lavoro, spesso seguiti da tutor che nei primi anni erano entusiasti e tenaci.
Recentemente è stato avviato un nuovo ciclo. Le pratiche sociali dal basso hanno fecondato le politiche. Gli esperti dell’Isfol e degli uffici regionali hanno pensato di far tesoro dell’apprendimento desumibile da queste pratiche ma hanno proposto interventi spesso troppo schematizzati che disconoscono l’importanza del ruolo svolto dalle associazioni localmente radicate, con il lavoro dei tutor che da anni conoscono gli artigiani e seguono le famiglie. Soprattutto la Regione – entro una prospettiva semplificata – ha assunto queste esperienze come nuova versione dell’apprendistato che nel Sud non ha mai avuto alcun utile esito, mentre si tratta di pratiche potenzialmente molto efficaci di socializzazione alla cultura del lavoro. Come per gli indultati e i diplomati, la Regione Campania, d’intesa con Italia Lavoro che tende a sostituire in blocco gli enti operosi nei territori, ha sostanzialmente bloccato i progetti che gli enti stavano facendo per i ragazzi in dispersione e abbandono formativo, proponendo una serie di iniziative che, almeno per ora, hanno dato esiti poco soddisfacenti, (cfr. progetti On-Off, gli OFI integrati, alcuni PON, i PAS e taluni progetti di Scuole Aperte). Tutte queste iniziative, talvolta improvvisate, sono risultate un po’ calate dall’alto, concepite e implementate entro una logica un po’ burocratica e statalista, assumendo sempre una visione semplificata dei comportamenti dei ragazzi, trattando i gruppi di beneficiari in modo troppo aggregato, disconoscendo l’esistenza di specifiche enclavi territoriali e di gruppi diversi di destinatari, eludendo la necessità di associare in modo intelligente sostegno sociale, patto formativo e inserimento nelle aziende.
Negli ultimi mesi alcuni enti hanno attratto qualche risorsa dalle Fondazioni ma si tratta comunque di investimenti limitati che danno qualche segnale ai Quartieri Spagnoli, a Forcella, Scampia, Rione Traiano. Indubbiamente una reale qualificazione delle politiche pubbliche in favore di giovani non potrà eludere una batteria di interventi, alcuni dei quali da realizzare ormai in forme non più episodiche e/o a ciclo progettuale, per la cura del passaggio dalla formazione scolastica di base alla formazione lavoro, avviando un ciclo di continua alternanza. I modelli ci sono e – forse ancora per poco – anche le competenze dei progettisti, degli orientatori e dei tutor. La questione è se i referenti istituzionali che orienteranno ancora l’uso di una valanga di soldi nei prossimi anni, avranno le capacità per assumere seriamente le esperienze più dense e consolidate, rispettandone la storia ed evitando tentazioni di gestione diretta del mercato. (giovanni laino)