Negli anni Novanta l’albanese Komir lasciò il suo paese in bancarotta cercando fortuna in Grecia. Ad Atene ha lavorato come muratore senza diritti nei cantieri del miracolo economico greco. Ora che tutto è finito fa rotta verso l’Italia
Sono tornato qualche settimana fa da Atene. Sono un archeologo e dal 2002 trascorro dei periodi di studio e lavoro in Grecia. Quando posso, preferisco ritornare in Italia con un viaggio lento. Attraverso in bus l’Attica, poi costeggio il golfo di Corinto fino a giungere direttamente a Patrasso, e poi da lì in nave verso Bari. È una sorta di rituale che dovrebbe servire ad alleviare il dispiacere per il ritorno ma che in realtà non fa altro che prolungarlo. Le quattordici ore di viaggio ti consentono di assumere un atteggiamento rilassato verso le cose e le persone che ti circondano. Appena entri in nave e vedi i volti degli altri viaggiatori, sai che alla fine nascerà con almeno uno di loro un legame temporaneo, un legame che di solito è intenso e trasparente perché probabilmente quei visi non li rivedrai mai più.
Davanti a un ouzo bevuto sul ponte del traghetto ho conosciuto Komir. Riconosce che sono italiano, mi chiede subito se vado a Napoli, e con un sorriso che vorrebbe trasmettere garanzie e sicurezza, mi dice che è albanese, ma con regolare permesso di soggiorno. In poche ore mi racconta tutta la sua vita. Komir ha trent’anni e ne aveva diciassette nel 1997 quando ha lasciato Fratar, un villaggio di cinquemila abitanti tra le montagne del sud dell’Albania. Non voleva più vivere in un villaggio di disperati. Partiva perché per lui i soldi erano tutto e la sua famiglia e il suo paese non ne avevano più. Solo dopo ha conosciuto i motivi reali del disastro economico che portò milioni di albanesi in fuga verso la Grecia e l’Italia alla fine degli anni Novanta: piani di arricchimento facile e truffe finanziarie avevano mandato in fumo i risparmi di operai, contadini e semplici risparmiatori; il tutto sostenuto dal governo albanese, dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale.
Komir non possedeva nulla, l’unica speranza era fare un po’ di strada verso sud, prendersi qualche manganellata e superare il confine con la Grecia. A diciotto anni si è trovato a vivere nei sobborghi di Patrasso insieme a centinaia di connazionali. I greci con cui aveva qualche contratto di lavoro lo chiamavano semplicemente o Alvanòs, l’Albanese, che implicitamente sta a significare pezzo di merda, frocio, figlio di puttana.
Considerati e trattati come gli ultimi di questo mondo, gli albanesi hanno trovato sempre lavoro in Grecia. Sono seicentomila, il settanta per cento degli immigrati del paese. Komir ha lavorato da subito nell’edilizia. Appena maggiorenne ha tagliato tonnellate di ferro per armare il cemento del ponte che unisce le due coste del golfo di Corinto, forse la più grandiosa opera moderna realizzata nel territorio ellenico. I greci da soli non avrebbero potuto farlo e ogni volta che vede il ponte Komir sorride, pensando che sono occorsi settecentosettantuno milioni di euro per costruirlo, metà stanziati dallo stato e metà dalla Banca Europea degli Investimenti, mentre lui ha ricevuto solo poche centinaia di euro per rompersi la schiena e vivere come un fantasma tra acciaio e cemento.
Un anno prima della fine dei lavori per il ponte, Andreas, che recuperava i lavoratori albanesi, e ogni tanto li pagava, li portò tutti ad Atene. Era lì che ci sarebbero state le Olimpiadi, era lì che sarebbero arrivati i soldi europei, era lì che si doveva costruire. A pochi mesi dall’estate più attesa da tutti i greci, nulla era pronto, nulla rispettato o realizzato. Nessun greco sapeva e sa reggere una pala in mano, maneggiare una cazzuola, impastare cemento per costruire alberghi, stadi, piscine, metropolitane. Komir e un esercito di operai albanesi, bulgari, macedoni, curdi lo facevano per dodici ore al giorno, senza diritti e senza pretese. Grazie a loro ad Atene le strutture olimpiche sono state realizzate e le Olimpiadi del 2004 sono state l’evento più importante della storia contemporanea greca. Tutta la Grecia ha recuperato stima e fiducia agli occhi dell’Europa e l’identità greca si è affermata a livello internazionale.
Komir mi racconta che di tutto ciò non sapeva nulla e soprattutto non gli interessava nulla dei greci e delle Olimpiadi. A lui importava racimolare pochi euro e cercare di portare a casa ogni sera salva la pelle. Quattrocento euro al mese, ma Andreas gliene dava trecento, nove ore di lavoro al giorno, cento euro per dormire insieme a dieci connazionali in un sottoscala dell’estrema periferia di Atene. In una di quelle case che si vedono dall’Acropoli, risplendenti alla luce del sole ai confini della città: sono cubi di cemento infuocati in estate e gelidi in inverno, senza acqua corrente o servizi igienici. Cento euro servivano ogni mese per vivere da clandestino ad Atene: mangiare qualcosa, comprare sigarette, qualche vestito e poi conservare cinque euro per le domeniche al mare. Biglietto del tram, birra, bagno e il sogno di avere una delle ragazze greche che prendevano il sole. Il resto del denaro guadagnato lo spediva in Albania.
Komir ha visto da Atene la Grecia cambiare, ha visto i greci comportarsi da ricchi, sentirsi dei veri cittadini europei, cosmopoliti e globalizzati. Per la maggior parte questo era solo un sogno, ma il sogno bastava a farli sentire diversi dai paesi poveri dell’Europa dell’est. Ma l’Albanese ha visto e provato anche tutte le contraddizioni del paese: la corruzione politica, la speculazione edilizia, i disagi degli immigrati, le proteste dei giovani e degli anziani, le violenze della polizia. Atene è diventata in pochi anni una città moderna, modernissima, e tutti i problemi a margine sono stati considerati solo il prezzo da pagare sulla via della crescita. Nonostante la complessa e lenta burocrazia, Komir è riuscito a ottenere un lavoro regolare e un permesso di soggiorno. Ha finito per amare i greci, la Grecia e le sue contraddizioni. È qui che sono stati alimentati i suoi sogni e le sue speranze.
Komir mi confessa che ha un fiuto per i disastri finanziari e mi confessa che non crede sia opportuno per lui restare in Grecia. La situazione che ha visto negli ultimi mesi è veramente nera, ne conosce i motivi antichi e l’ha vissuta già nel 1997 in Albania. Sa che la crisi non è solo greca, ma di tutta l’Europa; sa anche che la Grecia in fondo è sempre stato un paese povero, isolato e ormai snaturato. Gli aiuti europei sono finiti, i bilanci falsi smascherati, la ripresa avverrà forse fra molti anni. L’Albanese non ha più lavoro ed è tempo per lui di lasciare la Grecia. In Italia ha dei cugini, proveranno a racimolare un po’ di soldi nei nuovi cantieri del Nord Italia. Ma Komir sente che questa nuova avventura sarà breve. Sa già che anche in Italia tira una brutta aria. La notte in nave è passata, vediamo Bari e Komir mi confessa che il suo sogno è ritornare sui suoi monti a Fratar.
(simone foresta)
By ante November 21, 2010 - 9:52 pm
Se era sempre cosi brutta la situazione anche prima della crisi perchè Komir non andava via prima? E rimasto perchè i Greci non sapevano impastare cemento per le costruzioni? Prima del arrivo degli Albanesi le opere pubbliche, gli alberghi ecc le facevano gli alieni? Si vede da quello che dice odiava profondamente il paese che lo ospitava, altro che amare. Per concludere la Grecia era sempre stato un paese occidentale l’unico nei balcani da lì nasce la gelosia e l’odio di Komir e di altri come lui.