Non c’è nulla di più detestabile che stare a guardare gli altri agire senza far niente. Non c’è nulla di più stupido che agire impulsivamente a difesa di una causa per cui, obiettivamente, non valeva la pena muovere un dito, e magari lasciarci la pelle. Per dire, la cassa del grande negozio in cui lavori. Per dire, quando due balordi fanno irruzione armati per rapinarla.
Ci sarebbe voluto qualcuno lì, in quel momento, fatto solo di voce, dietro l’orecchio di Perdichizzi, magazziniere presso un supermercato di Carini, a suggerirgli questa idea, questa massima, questo consiglio insomma. Ci sarebbe voluto qualcuno a sussurrargli di girare i tacchi e tornare nel suo cantuccio, nascondersi dietro un cassone del magazzino e non muoversi per venti minuti minimo. Non affacciarsi. Sentire il trambusto, quel movimento, quelle urla e stare immobile. Tipo impulsivo, generoso e irascibile, uomo buonissimo ma incline a improvvisi accessi d’ira, Perdichizzi. Fermo non ci sapeva stare. Pericoloso, dunque, per sé e per gli altri, anche e soprattutto perché inconsapevole e innocuo. Lo conoscevo. Poco, per interposta persona, ma lo conoscevo.
Lui che fa, dunque? Si affaccia. Vede questi due tipi armati, a volto coperto, puntare la pistola verso i cassieri, li sente intimare agli altri, ai clienti, al resto dei commessi, di non muoversi, e si butta correndo verso loro con in mano il taglierino che stava usando per aprire imballaggi. Quelli avevano il colpo in canna. Ragazzi, tutti e due, nemmeno maggiorenni. Mezze teste con poco cervello, ma armati. Si prendono paura e sparano. Poi fuggono senza portarsi via un euro. Risalgono sulle moto su cui erano arrivati (due loro amici infatti li aspettavano fuori con il motore acceso) e ripartono. Non c’è nulla di più stupido che agire impulsivamente a difesa di una causa per cui, obiettivamente, non valeva la pena muovere un dito, e così lasciarci la pelle. Sai cos’è strano di questa vicenda? Conoscevo anche gli altri, i presunti assassini, i ragazzi. Per interposta persona, ma li conoscevo. Avevo sentito parlare più volte di loro. Li hanno arrestati.
Una pistola nei quartieri della città si acquista con pochi euro, me lo ha detto un mio alunno qualche anno fa. Me lo ha detto scherzando, quando aveva capito che tanto lo avrei bocciato. Mi ha detto scherzando: «Professore, lo sa, un ferro ormai costa solo trenta euro». Ferro, è chiaro, vuol dire pistola. Due settimane prima mi aveva detto che sapeva quale era la mia macchina. Non mi ero scomposto. Aveva aggiunto che dalla targa della macchina, basta collegarsi al sito dell’ACI, puoi risalire anche all’indirizzo di casa del proprietario. Allora era intervenuto un suo compagno. Anche a lui avrei fatto ripetere l’anno. Con un po’ di sadismo, forse, gli avevo fatto capire chiaramente che lo avrei bocciato, essendomi data tale facoltà. Aveva aggiunto questo compagno che ci voleva poco a mettere una valigia piena di tritolo davanti a una porta di casa. Stava scherzando anche lui, ovviamente. Scherzavano insieme. Sono scherzi pesanti ma come tali, personalmente, li ho presi.
Capita a volte, a chiunque, di andarci giù pesante con gli scherzi. A questi due studenti della classe in cui insegnavo era successo già dei mesi prima. Avevano fatto uno scherzo a un loro compagno. Gli avevano tolto i pantaloni e le scarpe mentre erano in palestra. Avevano buttato il tutto fuori dalla porta. Un terzo compagno nel frattempo aveva preso un cellulare e aveva fatto un filmato. Quello che era stato spogliato per diversi giorni non era venuto a scuola. Temeva anche che i suoi compagni mettessero il filmato su You Tube, e se ne vergognava. Quando era venuta a galla la storia si era fatto un consiglio di classe in cui si erano presi dei provvedimenti per quanto accaduto. Quindici giorni di sospensione agli autori dello scherzo, e una multa da pagare “per uso di telefonino allo scopo di denigrare un compagno”. Era prevista dal regolamento della scuola, la multa. Un professore, durante il consiglio di classe, aveva detto a quello che aveva fatto il filmato: «Ma come mai in tutti questi giorni non hai cancellato quel video? Te lo sei tenuto sul cellulare e lo hai anche fatto vedere al preside quando te lo ha chiesto. Sei proprio scemo». Non c’è nulla di più detestabile che stare a guardare gli altri agire senza far niente.
Ciaculli è un posto delle mie parti. Mi è sempre stato noto per tre cose: per gli agrumeti. E perché tra quegli agrumeti ho letto che avevano dimora i Greco, famiglia storica della mafia cittadina. E perché ho letto che negli anni sessanta sulla via di Ciaculli c’era stata una strage famosa, in cui erano morti sette carabinieri fatti saltare in aria con una bomba piazzata su una Giulietta. Ogni mattina faccio quella strada per recarmi al lavoro e ogni mattina penso a quelle tre cose che ho sempre saputo di Ciaculli. Poi arrivo in cima alla salita, prima dell’ampio curvone che conduce a una località chiamata Gibilrossa e al punto in cui si vede l’obelisco commemorativo dell’impresa dei Mille. Quando arrivo su in cima, prima dell’ampio curvone, ogni mattina mi dimentico sistematicamente quelle tre cose che so di Ciaculli. E sistematicamente mi giro ad osservare il panorama lì sotto. È certamente uno dei più bei panorami della città, se si può mai affermare che è bello un panorama che inquadri nella sua interezza la città di Palermo.
Il verde degli agrumeti, proprio lì giù, vicino. Più in là la città, fatta di alti sgraziati palazzi, immagine concreta del sacco edilizio. Più in fondo il Gran Monte. Ogni mattina su quella strada ci sono lavori, quando piove molto la strada sistematicamente si allaga ed è meglio cambiare percorso, prenderla larga, evitare Ciaculli e fare il giro dal paese di Misilmeri. Ma quello che veramente c’è di fantastico, lassù, in quel momento che si ripete ogni mattina, poco prima di quella curva, sono le continue, mai identiche variazioni di luce. Poco dopo le sette del mattino, in cima alla via di Ciaculli, ciò che è più bello è il cielo. Quando arrivo su in alto, ogni mattina, sistematicamente, penso che in mezzo a tanto dissesto, venendo fuori da un generale disastro, il muso della macchina piantato verso la cima, la luce che vien giù dall’alto, sono contento.
È chiaro che questa personale contentezza deriva unicamente da una motivazione di tipo privato. In quella luce, in quel cielo, non so esattamente cosa potrei collocare. Forse soprattutto l’ammiccare furbo di mia figlia o le sue espressioni di entusiasmo quando è intenta in un’attività che la rapisce. E qualcos’altro di altrettanto personale che dire qui non mi va. O forse anche il benessere di una situazione lavorativa che, finalmente, dopo anni un po’ duri, mi piace abbastanza e mi diverte.
Ho detto contento, mi sono guardato bene da usare l’espressione felice. Ho imparato da tempo a tenere sotto controllo le parole, disinnescando gli slanci di eccessiva fiducia, nel timore di irritare gli dei attirandone l’ira. La contentezza è tutto sommato una condizione passeggera che viene concessa a chiunque. La felicità è imperdonabile.
Cerco per strada frammenti di una felicità possibile sapendo che della felicità non so quasi niente, se non che la immagino duratura e soprattutto che immagino sia qualcosa che si mette in comune. Cerco per strada frammenti di una felicità possibile, in una città ridotta in frantumi, e non mi riesce di rintracciare quasi nulla. Ho piuttosto piantata in testa una foto, vista tempo fa in un libro di Letizia Battaglia. È una foto del 1977, semplicissima, asciutta, dallo stile meramente documentale, come molte delle foto scattate da Letizia ai tempi in cui era fotoreporter dell’Ora. Ritrae un gatto che, al centro della carreggiata, in quella che pare un’ampia strada di edilizia recente, si avvicina silenzioso e senza farsi notare a un topo che, inconsapevole dell’imminente aggressione, attraversa la strada. Mi è capitato spesso che mi sia tornata in mente quella foto e l’ho sempre associata mentalmente a un’altra fotografia di Letizia Battaglia che ritraeva lo svincolo di Capaci pochi minuti dopo la strage del 23 maggio ’92. Per molto tempo sono stato dunque convinto che essa fosse l’unica possibile rappresentazione fotografica di un agguato mafioso nel momento di compiersi, vedendo raffigurato nel gatto il malavitoso e nel topo un uomo sul punto di essere brutalmente ammazzato, e ancora ignaro di quanto gli stia per capitare.
Oggi, dopo diverso tempo, ho ripreso in mano quel libro e mi sono reso conto che, come spesso accade quando si conserva memoria di qualcosa, avevo mischiato il tutto a mio piacimento. Avevo attuato una delle tante continue mistificazioni che la memoria quasi per sua naturale vocazione è solita mettere in atto. Quella foto, nel libro in questione, dopo una sequenza piuttosto truce di morti ammazzati per strada o in abitacoli di macchine, è in realtà collocata all’interno di una sequenza di immagini meno violente. La prima immagine mostra il giudice Scarpinato circondato dalla sua scorta ed è seguita da fotografie che ritraggono malavitosi arrestati e portati alla sbarra. In mezzo c’è la foto del gatto. La fotografia sembrerebbe allora evocare più che un agguato una “cattura”, e il topo sarebbe più che altro il malavitoso finalmente condotto alla sbarra. È un’immagine di speranza, dunque? Può darsi, ma pensare che sia una cattura anziché un agguato a me non dà alcun sollievo. Quel che più risuona in modo distinto, infatti, è l’essenza evidente della scena, la brutale forza metaforica con cui, in una frazione di secondo, il tempo naturale di ogni fotografia scattata per strada, lo sguardo della reporter ci svela una verità semplice su Palermo. Che è una città in cui si registra l’evenienza, abbastanza diffusa, che un certo numero di persone passi gran parte del proprio tempo a giocare con le pistole, o comunque a un gioco mortale, di caccia: come quello del gatto col topo. (mario valentini)