Mi scrive un conoscente marchigiano affinché io risponda a un questionario sulla figura dell’intellettuale “impegnato” oggi, e su come farla tornare in auge. Una vecchia storia, con idee così antiche e stantie da risultare perfino irritanti. Intanto, perché la definizione del “pegno” è sempre stata sottaciuta, mai approfondita, estremamente generica, e poi perché il tempo ha cambiato il mondo togliendo ogni forza a quella figura, sicché chi oggi cerca di farla rivivere ci sembra perfino ridicolo, con la sua auto-investitura di portavoce di chissà chi e chissà che, con i suoi inutili appelli e firme e, di concreto, solo la difesa di qualche privilegio – vedi le proteste recenti per i tagli alla cultura. Ma la storia dell’impegno ha avuto in passato una sua dignità, e una sua tragedia. Se si pensa al destino degli artisti e intellettuali che negli anni venti e trenta hanno cercato faticosamente di mettersi a servizio della parte buona della storia – i proletari, i senza nome, gli oppressi, i reietti – e alle loro vicende, c’è ancora da rabbrividire: destini tragici, tra carceri patiboli lager gulag e disperazioni fino al suicidio. Forse una storia non nuovissima, neanche allora, ma certamente mai così “mondiale” e così terribile. Sballottati tra ideali rivoluzionari e realtà sovietiche, ribellioni individuali e ribellioni di masse, guerre tra nazioni e guerre civili, fascismi e nazismi e comunismi e democrazie borghesi rigidamente capitaliste e tutt’altro che egualitarie (con timide ed effimere speranze negli incerti e manipolati “fronti popolari” e nei tentativi di welfare come risposta alla grande crisi), e ovviamente, i più, tra aspirazioni di partenza e cedimenti brutali alle logiche del potere, servili da subito o servili per costrizione, gli “intellettuali” ne sono usciti con le ossa rotte, e il secondo dopoguerra ne ha riproposto, nella vulgata della sinistra occidentale, non più che una parodia, mentre altrove la guerra fredda lo stalinismo il colonialismo e i nuovi poteri post-coloniali confermava i precedenti ricatti e le precedenti oppressioni, le precedenti violenze.
Quel che è cambiato è, a ben vedere, che l’evoluzione della società “globale” ha via via dilatato la figura dell’intellettuale facendone moltitudine, come direbbe chi di teorie non si stanca di inventarne e di camparne. La scolarizzazione ha reso tutti “intellettuali” e quasi tutti “artisti”, le singolarità si perdono nel mare magno della chiacchiera giornalistica, universitaria, scolastica, pubblicitaria, politica, sacerdotale – tutti imbonitori di qualcosa, con il “pegno” fondamentale della propria affermazione e sopravvivenza: il successo e il denaro. E non – come dice un bellissimo romanzo recente che cerca di ridar valore al “ceto medio” universale di Emmanuel Carrère (Vite che non sono la mia, Einaudi) – “la gloria”, e cioè la soddisfazione della dignità e bellezza di un’impresa affrontata per amor di giustizia e di verità, per il bene comune. (Di questo dovrebbero tener conto anche gli scrittori quarantenni che in questi giorni cercano affannosamente di ridarsi ideali non volgari, ma ricadendo paro paro nelle consuete beghe rivendicative e generazionali e subendo infine tutti i ricatti del “sistema” che dovrebbero mettere in discussione…).
Ci sono ancora in giro per il mondo figure di “intellettuali” che rispondono al vecchio modello – e alcuni davvero grandi – e che sono in sostanza coloro che studiano pensano creano in modi indispensabili per il futuro di tutti, e spesso sono meno noti di quanto meriterebbero, è però la enorme quantità di sedicenti o cosiddetti intellettuali a sconcertare e spaventare: milioni di professori giornalisti guru funzionari e artisti (scriventi cantanti recitanti disegnanti… milioni di “creativi…) che ne fanno la parodia, e si può andare sul sicuro scegliendo per loro (per noi!) un’altra definizione più adeguata: quella di operatori sociali che possono essere di sinistra e di centro e di destra perché nel grande rimpasto collettivo di questa categoria si è fatto difficile distinguere (si è massa, e una massa che arranca e protesta e grida e sgomita confusamente, famelicamente, cacofonicamente, etologicamente). Tra gli operatori sociali vanno compresi anche gli operatori culturali. Non vedo grandi differenze, si è tutti “sovrastrutturali”, ma solo ammesso che valga ancora la distinzione con gli “strutturali”, nell’economia politica della post-modernità.
Per i più saggi e presenti e utili di loro – e per tutti noi – dovrebbe valere, nel giudizio su chi si è e su ciò che si fa, la lezione del romanzo di Carrère: collocarsi modestamente tra coloro che pensano alla vera gloria che si conquista attraverso il ben fare, e che può essere efficacemente e senza problemi restare ignota ai più (“fa’ quel che devi, accada quel che può”), e non al personale successo e al proprio benessere (anche di famiglia, anche di clan). (goffredo fofi da l’unità, 30 aprile 2011).