A largo Banchi Nuovi, davanti a un pubblico esiguo ma assorto, si sono esibiti i DARG, gruppo rap palestinese di Gaza. L’evento è stato organizzato dallo Zero81, un centro sociale sorto nei locali dell’ex-mensa dell’Università Orientale. La sera del concerto, in contemporanea con una partitella semi-professionistica di calcetto (a giudicare da completini e scarpette) messa su dai ragazzi del quartiere, abbiamo ascoltato e conosciuto i DARG, in verità un po’ confusi dalla truce vitalità della città di Napoli. I “Da Arabian Revolutionary Guys” sono quattro mcs, un beatmaker, un fotografo e un manager, attualmente impegnati in un tour di qualche mese in diverse città italiane. Da quando con pochissimi mezzi hanno iniziato a registrare i primi pezzi, sono arrivati oggi a farsi conoscere in giro per il mondo, anche grazie al supporto di associazioni solidali con i palestinesi. Mentre la Freedom Flotilla “Vittorio Arrigoni” lotta per poter veleggiare verso Gaza, i DARG portano in Europa le storie dell’occupazione. Questo è ciò che ci hanno raccontato.
Agli inizi eravamo due band, gli ARG e i DA, poi ci siamo uniti e abbiamo dato vita ai DARG, che in arabo vuol dire “scale”. Ha un significato particolare, ci ricorda che vogliamo andare in alto con la nostra musica. Siamo buoni amici da prima di diventare un gruppo. Ascoltiamo Hip Hop occidentale fin da ragazzini ma per la nostra musica abbiamo deciso di cantare in arabo. C’erano già alcuni gruppi arabi che si esprimevano nella loro lingua, e ci è sembrata una grande idea fare lo stesso nella striscia di Gaza. Nel 2009, dopo la guerra, abbiamo vinto la prima competizione nazionale di musica Hip Hop, e saremmo dovuti andare fuori da Gaza in tour. Ad organizzare tutto è stata un’organizzazione danese, fondata da un centro culturale di Copenaghen. Dopo aver vinto abbiamo provato a uscire da Gaza per fare dei concerti e per promuovere il gruppo. Doveva essere un tour di poche settimane, ma alla fine saltò tutto. Per nove mesi provammo ad uscire, avevamo molte offerte per suonare, tanti eventi, ma ce li siamo persi. Non potevamo uscire.
Solo nove mesi dopo la competizione ci fu la possibilità di uscire da Gaza per suonare in Svizzera, Francia, Danimarca, Svezia e Norvegia. L’anno scorso. Il fatto è che per lasciare Gaza devi avere, come dire, delle… buone ragioni. Devi avere un passaporto palestinese, un visto per l’area Schengen, un invito, i biglietti aerei, e devi registrare i nomi al Ministero degli Interni. È come una lotteria. Solo per registrare i nomi puoi aspettare una settimana, un mese o un anno. Funziona così. Questa volta siamo venuti in Italia e ce l’abbiamo fatta in quattro giorni, siamo stati molto fortunati. Abbiamo vinto la lotteria. Ora, per tornare dobbiamo avere un visto egiziano.
Il linguaggio dell’Hip Hop è libero e non ha confini. È un modo per esprimere cose che contano davvero. Pensiamo che sia uno dei modi migliori per raggiungere le persone, perché dice la verità. Non ha colore politico, non ha parte, è la vera lingua della strada. Ovviamente parliamo dell’Hip Hop underground e cosciente, l’Hip Hop politico. Nelle nostre canzoni raccontiamo le storie di Gaza, quello che accade. Parliamo dell’occupazione e degli effetti dell’occupazione. Parliamo della libertà delle persone, del nuovo modo di resistere, che è la resistenza culturale, la resistenza non violenta. Noi diciamo resistenza non violenta, ma non crediamo all’espressione “resistenza violenta”.
A Gaza qualsiasi resistenza è legale, perché combattere per qualcosa che ti è stato preso è un tuo diritto. La resistenza non violenta è un modo nuovo, che è iniziato sei, sette anni fa, forse anche dieci anni fa, in altri luoghi della Palestina. La gente ne aveva veramente troppo della guerra, e ha iniziato a preoccuparsi di cosa si pensasse fuori dalla Palestina. Anche noi vogliamo cambiare l’idea che siamo solo dei terroristi con qualcosa che la comunità internazionale e la comunità locale possa capire. Crediamo che se le persone ci percepiscono attraverso un linguaggio con cui hanno familiarità, iniziano a riflettere di più sulla Palestina, ed è per questo che facciamo musica. Ci sono molti altri tipi di resistenza culturale, come i bloggers, i nuovi media, gli educatori, tutto ciò sta creando un nuovo modo di resistere e di esistere. Negli ultimi anni la resistenza non violenta ha guadagnato molti consensi e soprattutto rispetto.
Se a Gaza avessimo perso la speranza, non avremmo combattuto finora. Noi combattiamo da 63 anni perché abbiamo la speranza, capisci? Perché ti svegli ogni mattina, vai a lavoro, continui la tua vita. Ieri è passato, ma è anche memoria. Domani è qualcosa, è il futuro, e noi lavoriamo per quel futuro. La gente a Gaza spera in grande, ha molte ambizioni e vogliono fare molto per loro e per le prossime generazioni. La musica Hip Hop è qualcosa di nuovo. Viene dall’occidente. All’inizio non accettavano quella cultura a Gaza, perché siamo una società molto conservatrice. Ma poi abbiamo iniziato a raggiungere le persone mescolando la nostra musica con altri strumenti e altre sonorità, che sono quelli più cari e vicini alla comunità locale. Specialmente musica che appartiene a Marcel Kharife, a Fairouz, a Abdel Khalid, questi grandi musicisti arabi, che le persone conoscono bene, sono entrati nei nostri pezzi, nei nostri beat. Abbiamo fatto qualcosa per porre la nostra musica al confine, non del tutto occidentale, non del tutto orientale. È entrambi.
Così le persone a Gaza hanno iniziato a riconoscere la nostra musica, ma che aveva per loro qualcosa di diverso, di nuovo. Ascoltano, iniziano a domandare, ne vogliono sapere di più. Quando ci ascoltano non comprendono una parola di quello che diciamo, anche se è arabo. Non hanno idea di cosa diciamo perché è troppo veloce, ed è una cosa completamente nuova. Così domandano. Riceviamo molte e-mail che ci chiedono di sapere, ci chiedono i testi, ci dicono che lo stile piace, che comprendono un po’, ma che vorrebbe capire tutto. Così abbiamo un feedback, ed è fenomenale. Una cosa che non ci aspettavamo è il fatto di riscuotere interesse anche tra le generazioni più anziane. Camminiamo per le strade di Gaza e un uomo di sessant’anni o una donna di cinquanta ci fermano e ci ringraziano, apprezzano la nostra musica e ne chiedono di più. Oggi abbiamo più pubblico nella West Bank che a Gaza, sfortunatamente, ma è solo questione di tempo.
Prima di tutto, la cosa più importante è cantare per la nostra gente. È davvero difficile cantare dal vivo a Gaza. Noi speriamo di poterci esibire un giorno su un palco, sia nella West Bank che a Gaza. È successo, poche volte, a Gaza, abbiamo fatto dei concerti ma erano privati, senza pubblicità. Abbiamo avuto degli show per la strada, ma la musica era per il novanta per cento orientale e così non è davvero Hip Hop. Vuol dire molto per noi essere in Europa, suonare qui la mostra musica. Soprattutto perché possiamo parlare alle persone, non per cercare di cambiare le loro idee ma per provare a farli aprire su quello che davvero accade sul terreno a Gaza. E credo che entrare in contatto così, personalmente, fa molta differenza. Perché quel che vedi in tv non è come vederlo dal vivo, perché se ti limiti alle news sembra che a Gaza ci sia solo devastazione e sofferenza, ma noi vogliamo far capire che quella non è l’unica cosa che trovi a Gaza. Vogliamo trasmettere che ci sono molte differenze all’interno di Gaza, come in ogni comunità, ci sono i buoni, i cattivi, quelli in mezzo, e da noi è lo stesso. (salvatore de rosa)