Halfeti, provincia di SanliUrfa, sud est della Turchia.
Ci svegliamo alle primi luci. Flebili raggi invadono la piana e si riflettono sulle foglie degli alberi di pistacchio, disseminati a centinaia subito fuori l’assembramento irregolare delle case. Dove la terra rossa dai campi finisce, inizia una lingua di cemento che sguscia tra edifici senza intonaco, con i mattoni in vista e il ferro delle strutture piegato come artigli, fino a uno slargo con una fontana rotta che è la piazza del villaggio. Ieri notte, come altre notti, queste strade sconnesse hanno visto passare veicoli corazzati dell’esercito turco, di pattuglia tra i pastori e i contadini kurdi che qui tirano a campare; un modo per ricordare al villaggio le insegne del potere e per dissuadere i ragazzini dal crogiolarsi in desideri di rivolta armata. Abdullah Ocalan è nato a pochi chilometri da qui, e l’orgoglio di essere sfiorati dalla sua aura mitica si legge negli occhi ammiccanti che non possono parlare.
Il sole tiepido del mattino non spazza via il freddo, la voce roca dell’azan che annuncia con l’alba la prima preghiera del giorno fende l’aria e ghiaccia le orecchie. Per tutti i musulmani del mondo oggi è giorno di festa grande, è l’Eid al-Adha, meglio conosciuto in Turchia come Kurban Bayram, la festa del sacrificio, che tradizionalmente si tiene tra il decimo e il dodicesimo giorno del mese consacrato al pellegrinaggio alla Mecca, circa settanta giorni dopo la fine del Ramadan secondo il calendario lunare islamico. Ho la fortuna di passarlo con Esen e la sua famiglia allargata, in questo villaggio più volte distrutto e ricostruito, abitato in prevalenza da kurdi. Nell’unica stanza della casa riscaldata da una stufa a legna, sediamo in circolo sul tappeto per raccogliere le forze. Yogurt di capra, olive, formaggio, miele e pane di casa, sono la corposa colazione preparata dalla madre di Esen, una donna piccola e magra che non fa che abbracciarmi. Le strade sono animate da crocicchi di famiglie che in carretto vanno verso la campagna, qualcuno si tira dietro la capra o la mucca da sacrificare. Anche noi procediamo allo spiazzo vicino a una fattoria dove ci attendono gli zii e i cugini di Esen. Ognuno dei sette nuclei familiari ha versato una quota per acquistare un toro adulto di grossa taglia, il quale sopraggiunge trascinato da un trattore, muggendo e sbraitando, conscio del suo prossimo destino. I bambini ci giocano intorno e ne osservano i muscoli tesi, mentre il vecchio zio di Esen affila due coltellacci da macellaio.
In questo giorno, da quasi millecinquecento anni, i buoni musulmani sono tenuti a uccidere un animale in nome di Allah, riattualizzando il sacrificio di Abramo narrato nella Bibbia e nel Corano. Ad Abramo, Dio chiese di uccidere il figlio Ismaele a dimostrazione della sua fede, ma un momento prima che il coltello del profeta squarciasse la gola del pargolo, lo stesso Altissimo si manifestò concedendogli di risparmiare Ismaele e di sacrificare invece un montone. Il rito segna la fine del calendario islamico, ed è l’occasione per il ricongiungimento delle famiglie, per celebrazioni e banchetti, e per dedicarsi alla preghiera e al ringraziamento. Esen è abituato a partecipare sin da bambino, ma ci tiene a precisare che essendo ateo lo fa per la famiglia più che per Dio. Ora finalmente il sole comincia a riscaldare e nell’aria riverberano lancinanti i versi di animali macellati. La tradizione vuole che il sacrificio sia consumato senza anestesia per la bestia: essa deve essere uccisa con un taglio profondo nella giugulare e poi divisa in parti uguali tra le famiglie, lasciando anche una quota di carne da distribuire ai poveri. Con mano esperta, ora che il toro giace incaprettato, lo zio di Esen penetra con la lama la pelle scura del collo, tirando all’indietro la testa dell’animale con le dita infilate nelle sue narici e biascicando: «bismillahirrahmanirrahim». Bambini e donne osservano rapiti la scena, tutti tacciono, più per la solennità del momento che per compassione. Il sangue bagna l’erba fresca, oleoso, rosso fuoco, e il corpo del toro disteso continua a fremere attraversato da vibrazioni. Lo zio insiste col coltello finché la grossa testa del toro non si stacca con uno schiocco dell’osso; la carcassa decapitata sussulta, si irrigidisce, e lo zio si allontana asciugandosi il sudore dalla fronte.
Uno dei fratelli si allontana dal gruppo e stende il corto tappeto della preghiera verso est. Assorto, rivolge lodi al cielo, inginocchiandosi e rialzandosi più volte. È ora il momento del lavoro di squadra. Il corpo del toro viene posto perpendicolare su un telo di plastica, lo si spella e squarta e le quattro grosse zampe sono appese a una struttura metallica per essere ripulite. Le donne si occupano degli organi interni, mentre gli uomini sezionano i lacerti, le costole e il dorso. In tre ore, del toro rimane solo una macchia rossa sul telo, persino le ossa sono state spaccate con un’ascia. Entra in scena una bilancia, con cui si provvederà alla precisa divisione della carne tra le famiglie. È il tempo del tè e delle sigarette. Con le camicie chiazzate di sangue gli uomini giudicano le quantità, si scambiano battute, si aggiornano sui sacrifici delle altre famiglie. Arrivano delle donne con gonne colorate e bambini al seguito, sono i poveri che non possono permettersi un animale e ricevono una parte di carne da chi ha potuto officiare il sacrificio. Ci si scambia auguri di buon Bayram, le buste degli avventori si riempiono di pezzi ancora vivi, il sole abbraccia tutti.
In Turchia il numero di animali sacrificati in questo giorno si conta in milioni. Anche nelle città, i contadini inurbati non rinunciano al rito, e sono comuni scene truculente e fiumi di sangue in tutti i quartieri più conservatori del paese. Qui in campagna il gesto appare più naturale, un po’ come la sempre più rara macellazione dei maiali nelle contrade italiane. Attorno al truce assassinio della bestia, la comunità rinsalda i suoi rapporti, esprime l’appartenenza a un orizzonte significante che rimanda alla divina provvidenza, ma più di tutto celebra l’abbondanza e la fortuna di essere ancora benestanti, spartendo la gioia e la carne con chi non ne ha. Il rito evoca un mondo più ferino e sagace, di pragmatismo contadino misto all’afflato religioso e familiare, dove i valori della comunanza e della collaborazione restano condizione di sopravvivenza e fondamento dell’individuo. Anche Esen, che vive in città e non pratica più l’islam, è costretto da sé stesso a partecipare, nonostante in privato mi riveli quel che per lui è solo un gesto barbaro e superstizioso.
Di sera, i fuochi sparsi nei cortili cucinano la carne sacra. Anche noi ne mastichiamo lungamente i pezzetti, insieme a peperoni verdi e pomodori. Sull’est turco i fumi di grigliate oscurano le stelle, e il tempo della musica riempie i cuori e i buchi dell’esistenza quotidiana. All’occupazione militare, alla mancanza di lavoro, al futuro incerto, ci penseremo poi. Che stasera si mangi, si ringrazi Allah e ci si stringa intorno alla famiglia, come i profeti hanno insegnato.(salvatore de rosa)