La sua arma si è trasformata nella sua salvezza. Non sparando, ma usandola come stampella. Quando lo hanno colpito, si è appoggiato a lei per raggiungere zoppicando la macchina dei compagni che lo hanno portato via. In un ospedale a dieci chilometri da Bani Walid, insieme ad altri cinque feriti. Ancora ne giacevano a terra, due forse morti sul colpo, due ancora feriti. Ma non c’era più spazio, per salvarli la macchina è corsa via. L’arma non è più con lui da tempo, mentre le stampelle le tiene ancora, da allora, da tre mesi. Naji, combattente tra i ribelli libici, ha le stampelle da quando i primi di ottobre è stato ferito dalle forze libiche che li hanno accerchiati nei pressi di Bani Walid. Qualche giorno dopo un aereo militare lo avrebbe portato a Roma insieme ad altri venticinque libici, feriti di guerra. Come tanti altri accolti in Italia e in altri paesi arabi ed europei. Accolti nelle cliniche private, pagate dal governo libico. Quello nuovo, per cui hanno combattuto. Quello per cui adesso vorrebbe tornare, con la paura che abbia perso la mobilità per nulla. Gli infermieri romani lo chiamano “er principe”. Ma lui di signori al potere non ne vuole più sentire parlare.
Il buco del proiettile che attraversa il ventre di Seif si è formato invece il 5 luglio, il giorno in cui ha smesso di poter servire attivamente la causa. Per lui Gheddafi era morto ben prima che morisse. Lo hanno iniziato a uccidere quando hanno deciso di combattere. Seif, della tribù Zintan, che ha iniziato la rivoluzione il 16 febbraio a Bengasi. Non il 17, il 16. Loro erano pronti già a combattere nell’est del paese. E infatti Seif non si è fermato, ha attraversato tutte le città. Non ha più un amico, li ha visti cadere tutti al suo fianco. Fino a quel buco nello stomaco che lo ha messo fuori gioco. Fino a ottobre quando per poter sperare di viversi ancora i suoi ventisei anni in un paese diverso rispetto a quello in cui è cresciuto, anche lui è salito nell’aereo verso le cure mediche in Europa… Ma la morfina non gli fa più effetto, solo scolandosi una bottiglia al giorno di Ballantines, con le cinquecento euro settimanali che l’ambasciata offre loro, può cercare di addormentarsi. Altrimenti non dormirebbe. La guerra continua a creare più buchi nella sua testa che nel suo stomaco.
A Roma, nella capitale, in un clinica privata nel quartiere delle ambasciate. L’architettura sembrerebbe quella di una Tripoli coloniale. Viali e ville. E feriti di una lotta e di una guerra che non conoscevamo. Così come non conoscevamo la Libia, nella voglia dei feriti di oggi di raccontarla.
«Quello che si conosce della Libia è stato quello che riguardava Gheddafi e la sua famiglia. He was all, he did all and he did nothing». Così Adel ci parla del suo paese che vorrebbe che il mondo conoscesse. Per la sua bellezza, non per il suo petrolio. Nelle sue leggende, non per i trattati con l’Italia. «La cosa più violenta che ho vissuto nella mia vita è la mancanza di libertà». Non sono stati i colpi inferti dalle forze di Gheddafi, quando proprio il 17 agosto, giorno della liberazione di Tripoli, gli hanno sparato al ginocchio e lo hanno portato in prigione. E’ sceso in piazza, Adel. Lui non era un combattente. E non scendeva in piazza dal 20 febbraio a Tripoli. Perché altrimenti gli avrebbero sparato prima. Ma nel momento in cui tornava nelle strade della sua città si è ritrovato in mano ai torturatori: «Se non ci dici tutto, ti spariamo anche all’altro ginocchio». Adel non era un combattente, seppure la voglia di strillare non lo abbia risparmiato il giorno in cui avrebbe potuto cominciare a farlo. Sebbene oltre alla gamba non possa muovere la mano, e la parte destra dell’occhio e della testa siano privi di sensibilità, il desiderio inarrestabile di un venticinquenne di raccontarsi lo fa muovere vivacemente. Come se non fosse in un letto di un ospedale.
In realtà è il suo sguardo a sembrare in continuo movimento. È la Libia di chi non vede suo padre dal primo anno di vita, perché fuggito in Libano per respirare. È la Libia di chi ha studiato ingegneria, perché sperava, ma non poteva sfuggire alla corruzione e alle mazzette sotto banco che servivano per avere un qualsiasi impiego. È la Libia che vuole arte e cultura che finora sono stati solo inni a un dittatore. È la Libia che vuole la tecnologia, perché se Muammar non avesse mangiato la ricchezza del loro paese, sarebbero gli europei a partire e a incontrarli. Fosse solo per ragioni turistiche. Un unico spazio mediterraneo aperto è ambito nelle teste di giovani libici, ieri con le armi in mano, oggi con le stampelle. Non perché oggi i soldi del loro governo e delle ambasciate hanno fatto riempire le tasche dei giovani dimezzati con gli I-Pod dei centri commerciali europei. Ma perché loro in Europa ci volevano già arrivare, quando prima della guerra potevano ancora camminare. (marta bellingreri)