Il dieci gennaio scorso si è concluso, nel tribunale di Copenhagen, il processo che vedeva imputata la stazione televisiva kurda ROJ-tv, accusata dal pm di aver dato spazio nei suoi programmi alle rivendicazioni del partito armato kurdo del PKK, considerato da Stati Uniti, EU e Turchia un gruppo terroristico. ROJ-tv è un broadcast indipendente con base a Copenhagen che trasmette via satellite per trenta milioni di kurdi sparsi intorno al mondo; il network, dalla sua apertura nel marzo 2004, è stato pesantemente osteggiato dalle autorità turche, le quali hanno più volte inoltrato lamentele diplomatiche allo stato danese chiedendone l’immediata chiusura. Il giudice danese, a quasi due anni dall’istituzione del processo, ha dichiarato nel verdetto che ROJ-tv in alcuni programmi ha effettivamente trasmesso messaggi del PKK in modo acritico e parziale, comprese chiamate alla ribellione e appelli ad aderire all’organizzazione, ma che in base a delle imperfezioni tecnico-giuridiche nei paragrafi d’accusa la licenza televisiva non può essere ritirata. Il gruppo, che fa capo alla Mesopotamia broadcasting, è stato condannato al pagamento di due milioni e mezzo di corone di multa per aver infranto le leggi anti-terrorismo danesi, ma le trasmissioni non si fermeranno. La notizia è stata accolta con manifestazioni di giubilo dal folto gruppo di kurdi assiepati davanti al tribunale di Copenhagen, mentre il governo turco, tramite il suo ambasciatore in Danimarca, ha deplorato il verdetto, minacciando ritorsioni diplomatiche. Le parti ricorreranno probabilmente in appello, il gruppo televisivo sperando di scagionarsi da tutte le accuse, i querelanti con lo scopo di imporre la chiusura del canale per vie legali. Due giorni dopo il processo, il ministro della giustizia danese Morten Bodskov e il ministro della cultura Uffe Elbaek hanno annunciato che la commissione radiotelevisiva si adoprerà per il ritiro della licenza di trasmissione di ROJ-tv.
Al di là delle dispute giuridiche, ciò che ROJ-tv rappresenta per i kurdi legati alle proprie radici culturali è uno spazio di espressione, non concesso ma preteso, che riporta i quotidiani tentativi di affermazione della propria presenza e specificità. In Turchia, un kurdo fiero del suo patrimonio culturale può essere incarcerato per una canzone, per un articolo giornalistico in cui le parole non sono pesate abbastanza. Anche se non è più un tabù parlare di “questione kurda” in Turchia, ogni volta che l’argomento s’impone si risvegliano profonde e mai sopite ostilità reciproche, le quali rimandano a lutti privati e repressioni di lunga data, e il dibattito assume toni emotivi e nazionalistici. Se è vero che il PKK ha intrapreso dalla sua fondazione una lotta militare clandestina e partigiana contro gli apparati dell’esercito turco e talvolta contro i civili, negli anni in cui la repressione era totale e capillare, è anche vero che parallelamente ai guerriglieri, e spesso in contrasto con essi, molti esponenti della società civile kurda e intellettuali di diversa estrazione hanno lottato per vie pacifiche nel campo dei diritti civili e culturali. Il ricordo e l’influenza dell’azione di Leyla Zana, Musa Anter e del giornalista armeno Hrant Dink sono vivi e stanno lì a testimoniare tentativi di dialogo costruttivo, che lo stato turco non ha colto né alimentato, rispondendo anzi con una insofferenza parossistica, contribuendo anche a creare le condizioni in cui sono maturati i misteriosi omicidi, ad oggi mai chiariti, di Anter e Dink. Anche il potentissimo Erdogan, da dieci anni alla guida del paese, non è mai andato oltre proclami dal sapore populistico inneggianti alla pacifica convivenza, e questioni quali la possibilità di avere scuole kurde, il diritto a proprie celebrazioni etniche e religiose, e il cambiamento di alcune leggi di stampo identitario (su una supposta “turchicità” da preservare) non sono state neppure sfiorate. Per ogni bambino kurdo incarcerato e giornalista estromesso per aver posto il problema, le autorità turche non si rendono conto che un altro giovane kurdo arrabbiato valuterà l’idea di salire sulle montagne a combattere. La repressione lascia spazio alla propaganda del PKK, che come qualsiasi partito utilizza gli eventi strategicamente per presentarsi come unico difensore dei diritti dei kurdi, nonostante la reale condotta non sempre cristallina.
ROJ-tv si pone nel mezzo di tale conflitto fatto di bombe e contenuti culturali. È la tv che si guarda nei villaggi sperduti distrutti e più volte ricostruiti, nei bassifondi di Istanbul e Damasco, sulle montagne dell’Iraq e dell’Iran, e nei salotti e negozi di mezzo mondo occidentale dove sono arrivati i kurdi migranti. I programmi, trasmessi nei quattro principali dialetti kurdi e in persiano, arabo e turco, spaziano dalla musica all’intrattenimento alle notizie, come tutte le televisioni, ma il sottofondo costante è una rivendicazione d’esistenza, un’autocelebrazione del patrimonio culturale kurdo che aumenta ad ogni nuovo episodio di repressione. ROJ-tv colma un vuoto nell’offerta di contenuti mediatici a favore dei kurdi, che in Turchia sono riusciti ad ottenere solo alcune ore di trasmissioni nei canali nazionali, sotto l’invadente controllo della censura. Il direttore del canale Manouchehr Tahsili Zonoozi, un kurdo iraniano, ha affermato che ROJ-tv mantiene contatti con il PKK, ma gode di totale autonomia decisionale. In quanto televisione commerciale, ROJ-tv segue semplicemente le inclinazioni del suo pubblico. Anche se in molti criticano apertamente le azioni armate dei guerriglieri, il PKK è percepito come il fulcro di una resistenza irriducibile, un simbolo che convoglia le speranze di rivalsa soprattutto tra chi ha saggiato l’umiliazione di sentirsi kurdo in Turchia, Siria e Iran. Il canale ROJ-tv non può quindi ignorarne l’esistenza. D’altronde però non ne è un portavoce ufficiale, e la musica e i film occupano molto più spazio delle storie dei guerriglieri nei suoi programmi.
A mio avviso, sono due i fattori da tenere in considerazione, che fanno di ROJ-tv una presenza con cui dialogare piuttosto che combattere. Punto primo, un secolo di persecuzioni ha suscitato una diaspora kurda globale (che è poi l’humus da cui ROJ-tv è nata) spesso più nazionalista nei contesti d’immigrazione ma anche più ricettiva e aperta verso differenti sollecitazioni culturali, più critica e acculturata. La possibilità che dall’estero si sviluppi un approccio incentrato più sulla difesa della cultura che sulla riappropriazione del territorio non è da sottovalutare. Un canale televisivo transnazionale fortemente caratterizzato ha per sua natura due strade davanti: o si chiude in una roccaforte celebrativa e astorica dell’identità, o diventa contenitore ibrido e propulsore al confronto tra posizioni molto diverse. Ed è precisamente questa seconda possibilità che i turchi dovrebbero valorizzare, spingendo per partecipare e per dare voce a posizioni in conflitto, in cui esponenti della cultura si confrontino piuttosto che soldati. Punto secondo, se ROJ-tv venisse chiusa, come sembra probabile, il morale dei kurdi subirebbe un altro duro colpo. Senza lo sfogo di vedersi rappresentati da qualcosa, tra di essi guadagnerebbero terreno posizioni oltranziste, e la morte per il proprio popolo avrebbe un sapore più dolce della vita senza esistenza. (apo esposito)