Articolo tratto da www.quartaparetepress.it
È raro che un’opera venga messa in scena contemporaneamente a pochi chilometri di distanza da due distinti e distanti registi. Accade in questi giorni con L’opera da tre soldi di Bertold Brecht, dramma con musiche di Kurt Weill sul quale Luca De Fusco e Salvatore Mattiello hanno inteso confrontarsi, ognuno restituendo il suo punto vista e la sua interpretazione rispetto alla drammaturgia originale. Accade, così, che il Teatro San Carlo e la Sala Ichòs si aprano per ospitarne l’allestimento, e che il pubblico si divida nella visione dell’una o l’altra messa in scena.
La rivisitazione proposta dal teatro di San Giovanni a Teduccio, in realtà, ha concluso il viaggio intorno a Brecht iniziato lo scorso anno con il progetto “Noi e Brecht”, ed è frutto di un lavoro attraverso il quale a piccoli passi si è inteso indagare sul teatro del drammaturgo tedesco, mettendo a confronto il proprio modo di intendere il teatro oggi e di rappresentarlo. L’opera da tre soldi, dunque, si pone come il punto di arrivo ma allo stesso tempo di partenza per una riflessione più ampia sulle tematiche dell’opera, a cominciare dall’imperturbabilità della società borghese e le sue connivenze, il tutto raccontato attraverso la lente dei mendicanti, delle prostitute, degli ultimi della società e che inevitabilmente trova richiami anche nell’attualità più stringente. Scenografato con fantasia da Ciro Di Matteo e Peppe Zinno, con soluzioni sceniche che hanno saputo sfruttare lo spazio ridotto in modo efficace, lo spettacolo vede in scena un nutrito cast di attori nella duplice vesta anche di cantanti, accompagnati da cinque bravi musicisti diretti da Lello La Torre. In pratica una messa in scena imponente, in rapporto allo spazio e alle disponibilità economiche, attraverso la quale Mattiello ancora una volta dimostra l’amore proprio e dell’intera compagnia verso il teatro, il rispetto con il quale a esso si approcciano, e lo studio che riservano al miglioramento continuo e necessario delle proprie attitudini attoriali. Il tutto mette ancora una volta in luce la caparbietà con la quale il gruppo si fa altoparlante di un modo di intendere e fare cultura che non conosce ostacoli, e che svolge la sua attività in un luogo di periferia ancora troppo acerbo, forse, per comprendere Brecht e quanto altro calca incessante quelle tavole da palcoscenico. Rispetto al quale, però, è ancora forte la speranza che un cambiamento si possa registrare:
“…tanto più impellente oggi dove molti sembrano immobilizzati nelle istituzioni e nelle professioni. Immobilizzati dentro una condizione statica, stazionaria, che ha minato alla base ogni spazio per l’agire umano e che anzi sembra aver reso quest’ultimo in sé obsoleto”.
Nel salotto buono della città, invece, è andata in scena la versione curata da De Fusco, anticipata all’ingresso da striscioni di protesta da parte del “Comitato indipendente per un teatro bene comune”. Il comitato rivendicava spiegazioni da chi di dovere sul ruolo che deve avere il teatro pubblico, e sul modo in cui dovrebbero essere orientati i finanziamenti, alla luce, in particolare, dell’allestimento de L’opera da tre soldi, il cui regista è anche direttore artistico del teatro Mercadante, del teatro San Ferdinando, nonché del Napoli Teatro Festival. Lo spettacolo ha visto salire sul palco nomi di grande richiamo, Massimo Ranieri e Lina Sastri, in primis, nei panni rispettivamente di Messer e della prostituta Jenny.
Calati in un mondo in bianco e nero, gli attori si muovono a ritmi di jazz tra rottami di computer e altri rifiuti tecnologici, in un’atmosfera che però, più che la miseria, intende riprodurre uno sventramento post bellico. Imponente alle loro spalle la riproduzione, a cura di Fabrizio Plessi, dell’Albergo dei poveri, dalle cui finestre immagini-video si susseguono a sottolineare i passaggi fondamentali della storia. Non è, però, sull’impianto scenico, né sui costumi, né sugli attori che qui ci si vuole soffermare (sebbene sia difficile non notare che la Sastri sia apparsa non in piena voce e Ranieri più di una volta abbia mostrato incertezze nella recitazione), quanto sul significato che l’opera così come è curata da De Fusco assume, e sulle considerazioni che da essa scaturiscono. Ciò che infatti appare chiaro è l’intento (riuscito) di trasformare il testo di Brecht in un musical dove sia la maestosità a prevalere, piuttosto che il messaggio politico del dramma. Del resto, lo stesso De Fusco esplicitamente dichiara: «Credo che la parte più politica del testo sia ormai talmente penetrata nella società da aver perso il carattere della novità».
Ma è proprio dinanzi a una dichiarazione del genere che è inevitabile domandarsi come sia possibile ritenere i contenuti politici ormai superati e per questo meritevoli di essere sovrasti, piuttosto, da richiami televisivi, movenze da showman, intrusioni filmiche con conseguente snaturamento dell’opera e del suo aspetto satirico. Eppure la realtà odierna dei teatri, così come quella degli operatori culturali in genere, dovrebbe esigere il ritorno a un certo tipo di tematiche su cui riflettere, e non eventi che – grazie prevalentemente alla partecipazione di nomi noti al grande pubblico – richiamino spettatori (prevalentemente anziani, in questo caso) senza però lasciare in essi domande, ma solo l’illusione che tutto vada bene. Che normale, e possibile, sia spendere migliaia e migliaia di euro per allestire uno spettacolo. Che vedere L’opera da tre soldi piuttosto che un altro musical non faccia differenza alcuna.
Chissà Brecht, in queste sere, nel buio di quale teatro si vorrà sedere per sbirciare e commentare. (ileana bonadies)