da Napoli Monitor n. 45, gennaio 2012
Appena rientrata in Italia (e nella mia città) decido di partecipare all’incontro organizzato presso la facoltà di Architettura per la presentazione dell’ultimo libro di Marianella Sclavi e Lawrence Susskind. Titolo promettente: Confronto creativo. Dal diritto di parola al diritto di essere ascoltati, che però contiene in sé l’evidente, non diretta né necessaria, coincidenza tra le pratiche della comunicazione e dell’ascolto, quasi a presagio di quanto si consumerà nelle due ore e mezza successive.
Venerdì 16 dicembre 2011, aula 10 di palazzo Gravina semivuota, concentrati nelle prime file quanti arrivano incuriositi dai relatori proposti: Marianella Sclavi, la “signora della partecipazione”, attualmente docente di etnografia urbana e antropologia culturale al Politecnico di Milano, figura di riferimento per la cultura della gestione costruttiva dei conflitti nei processi decisionali partecipativi; Giovanni Laino, docente di politiche urbane e territoriali alla Federico II, chiamato a rileggere criticamente il testo fresco di uscita; Alberto Lucarelli, giunto a metà del secondo intervento, assessore comunale ai beni comuni, chiamato per misurare i temi del libro con il contesto napoletano, dove si sta facendo un tentativo di “democrazia partecipativa”.
Il dibattito inizia con un video che illustra un OST (Open Space Tecnology) coordinato a Ravenna per il progetto della nuova Darsena. Un idillio. Facce sorridenti che realizzano quello che la stessa Sclavi, introducendo i diversi livelli di partecipazione di cui scrive, ci racconta essere un livello alto, quello che supera la semplice consultazione dei cittadini, per realizzare processi dove la molteplicità delle proposte converge verso un progetto condiviso, che le sintetizza e le supera. Laino discute poi sul testo, evidenziando il rischio di astrazione che una disamina metodologica, seppur sostanziata dalle esperienze raccontate, inevitabilmente contiene. La realtà dei soggetti reali e la problematica delle “condizioni di partenza” (che se non sono come le ipotesi perfette, rischiano di far saltare l’esito del processo) emergono come fattori dai quali non si può prescindere. E Napoli per questo ha fatto scuola, come emerge dai tentativi disastrosi ove si è sperimentato un processo di discussione partecipata, come a proposito dello spostamento del campo degli abitanti rom di Scampia, nel 2001.
La seconda parte della serata appare tuttavia surreale. Sarà che l’assessore si è perso l’inizio, ma quello che dice suona come “scollato” dai contenuti dell’incontro. A proposito del sottotitolo del libro, inizia con una lunga disamina dell’evoluzione del diritto di parola (un diritto che – come ripete – non coincide con quello di essere ascoltati) per approdare poi alla presentazione del progetto napoletano. La descrizione dei lavori in corso muove dalla faticosa genesi della “Costituente per i Beni Comuni”, fino alla descrizione della “novità” che il progetto rappresenta, alle note sulle “perplessità” dei suoi stessi colleghi, poco inclini a reinventarsi l’ambito ruolo con l’introduzione di questi processi di partecipazione.
Sarà che a Napoli ogni volta che si misura un processo o una pratica che altrove quantomeno sono partiti, quel problema delle “condizioni di partenza” a cui Laino faceva riferimento diventa un moloch insormontabile, ma pare sempre che si sia in ritardo in partenza. Del resto, se volessimo tornare agli stessi documenti che il comune fornisce per descrivere l’impresa, notiamo come essa resti nei fatti uno strumento sostanzialmente consultivo, assicurando livelli minimi di informazione (da parte dell’amministrazione) e di confronto pubblico che in una democrazia occidentale avanzata dovrebbero essere congeniti.
Un sistema di consulte è ben altra cosa da un processo articolato di partecipazione in contesti di mutuo apprendimento, in cui, coordinati da professionalità esperte (i cosiddetti facilitatori, che non sono come nel caso napoletano, “delegati degli assessori competenti in materia”, ma consulenti professionisti, non di parte rispetto ai contenuti, che dovrebbero accompagnare la costruzione della decisione con l’apporto di tutti i partecipanti), si possa realizzare “l’ascolto attivo” delle proposte, quindi la moltiplicazione delle opzioni a partire da quelle dei singoli e infine un processo di co-progettazione creativa, i cui esiti possano diventare davvero proposte che orientino le scelte pubbliche.
Mentre la serata procede e il dibattito prende corpo è come se la “partecipazione” a cui fanno riferimento tutti fosse per ciascuno un concetto diverso. La discussione continua sulla scia di questa evidenza. Un dibattito che muove talvolta dall’amarezza che le questioni reali – la Coppa America una fra gli altri – arrivino troppo spesso a una condizione d’urgenza, che impone l’inevitabile superamento del tempo lungo di un processo decisionale partecipativo. La sensazione più disarmante è tuttavia il dubbio che si stiano usando parole che appartengono alla cultura della partecipazione (fatta di pratiche, esperienze, talvolta revisione delle stesse esperienze) per racconta re qualcosa d’altro. Una gran confusione. Del resto, è una serata stridula. Dalla sua prima scena. Una presentazione di un libro che non avrebbe potuto trovare sede più opportuna di un’aula universitaria. Ma dove sono gli studenti (e i ricercatori, i cittadini, le persone in generale)?
Il paradosso del disinteresse pubblico, dovuto forse alla disabitudine ma anche al disincanto, in una serata in cui si parla di partecipazione si fa pesante. Anche come occasione perduta per capire un po’ meglio, dalla voce di uno che se ne fa promotore, come vorrebbe cambiare l’amministrazione della nostra città. Probabilmente l’avrà intuito anche lui, il primo a lasciare la sala, pochi minuti alle 20, dimenticandosi perfino penna e orologio sul tavolo e consumando in fretta il fervore partecipativo degli altri presenti, lasciati sicuramente con qualche altra domanda sulle labbra. (cristina mattiucci)
By Giuliana Quattromini January 23, 2012 - 1:33 pm
Il Comune di Napoli ha promosso, per il 28 gennaio, il Forum dei Comuni per i beni comuni. Protagonisti della giornata saranno amministratori, movimenti, associazioni, cittadine e cittadini.
Location dell’evento: Teatro Politeama e Maschio Angioino.
Una giornata, quella che si svolgerà a Napoli il 28 gennaio, che vorremmo fosse dedicata al tema della difesa dei beni comuni, fondamento irrinuncia…
La solita passerella/pantomima
Ma perché tutti quelli che si sono iscritti al gruppo “Chiediamo un’assemblea al Sindaci di Napoli” e che fino ad oggi non hanno avuto risposta non vanno alla passerella mediatica del 28 gennaio al teatro Politeama?
By marianella sclavi January 28, 2012 - 10:47 am
Il resoconto di Cristina Matteucci sulla presentazione del libro Confronto Creativo a Napoli ( apparso su Napoli Monitor n 45 e qui sotto riportato ) è quanto mai puntuale e mette il dito nella piaga. Insomma: queste amministrazioni “nuove”, Milano, Napoli, Cagliari, elette in nome di una promessa di partecipazione, che idee hanno di come si governa un territorio complesso come le città di cui sopra, in modo partecipato ?? La partecipazione ai tempi di Lucarelli ( cioè ai tempi della riscoperta dei “beni comuni”..) è sostanzialmente quanto di più vecchio e tradizionale fosse contenuto nella democrazia ottocentesca. Come osserva Cristina, una serie di assemblee, di riunioni consultive dove tutte le dinamiche che impediscono la costituzione di comunità di mutuo apprendimento e con capacità di co-prgettazione vengono tenute in vita. Oltre alla mancanza di criteri di rappresentatività di tutte le posizioni e gli interessi in gioco.
Laino a un certo punto ha osservato che il tipo di approccio dialogico che propongo ( e che viene attuato sistematicamente da svariati governi , cioè è stato testato e ha dato dimostrazioni di funzionare !!) richiederebbe un cambiamento del carattere delle persone e che non si può fr politica su questi presupposti. Ha ragione, su questi presupposti , no. Però quello che sostengo è che esistono dinamiche di gruppo e regole di lavoro collettivo che creano contesti in cui le persone agiscono spontaneamente secondo un carattere diverso e più adatto alle sfide dei tempi .Vedi Ost: il video Ost la Darsena che vorrei che ha aperto il dibattito voleva far toccare con mano questo. E allora : incominciamo nelle nostre organizzazioni di appartenenza e alle riunioni pubbliche alle quali partecipiamo ad alzarci e chiedere che siano impostato secondo i principi di una democrazia deliberativa e dialogica invece che solo rappresentativa e argomentativa. Ci vuole il coraggio di uscire dal vecchio paradigma.( Vedi il copia e incolla qui sotto) . Coraggio che queste “nuove” amministrazioni per ora non dimostrano, ma forse nemmeno noi ?? Vogliamo raccontarci su Twitter ( sto provoando a usarlo ) e FB ecc le volte in cui almeno ci abbiamo provato e quali reazioni ed ostacoli sono apparsi ? Grazie a Cristina.
By Rossella February 10, 2012 - 10:55 am
Parola chiave “cambiamento”. Mi interrogo su che cosa può produrre il cambiamento nell’agire sociale e su quali siano i tempi nei quali il cambiamento si può produrre.
Non conosco per nulla la realtà della società napoletana, nè so come il pensare e l’agire di questa società si sia storicamente prodotto. Per quello che se ne legge (da “Gomorra” – che forse delinea una situazione estrema, forse no – a “L’amica geniale” di Elena Ferrante) sembra che certi caratteri di virulento contrasto, anche tra clan famigliari di gente comune, con atteggiamenti di opposizione e attacco permanente, comportamenti di assalto verbale, atti di microviolenza, siano diffusi. Credo che questa modalità di relazione/antagonismo, basata sullo schema mentale amico/nemico, modelli negativamente una parte di quella società.
Chi conosce, certamente molto meglio di me, questa città e i suoi abitanti, nella composita varietà sociale che la caratterizza, dovrebbe credo iniziare a interrogarsi sulla possibilità di intervenire per modificare ciò che sembra bisognoso di un generale cambiamento nel sentimento e nei modi delle relazioni sociali. Sembra davvero un compito insormontabile ma, credo che non ci sia nulla (o quasi) che non si possa cambiare attraverso l’istruzione, l’educazione, il miglioramento delle condizioni di base dell’esistenza.
Di Ravenna conosco un po’ di più. Per uno strano caso mi sto proprio occupando di una ricerca su questa città, in particolare della sua storia durante la lotta di liberazione. Leggendo un breve ma straordinario testo di Arrigo Boldrini e Luigi Martini, “Pianurizzazione della guerra di liberazione nel Ravennate” (che illustra e motiva la genesi dei caratteri di quella società), si apprende che la solidarietà, la collaborazione, la ricerca del bene comune a spesa dell’interesse personale siano in questa società un dato acquisito (o quanto meno lo era in modo esteso nel 1945, oggi quell’eredità potrà anche essersi offuscata, ma certamente ne restano i semi).
Pensare che a Napoli le cose possano funzionare come a Ravenna mi pare perciò, lì per lì, eccessivamente ottimistico.
Marianella ha ragione quando dice che “esistono dinamiche di gruppo e regole di lavoro collettivo che creano contesti in cui le persone agiscono spontaneamente secondo un carattere diverso”. Mi permetto tuttavia, con il beneficio del dubbio, di inserire una piccola variazione: non “creano”, ma “possono creare”.
Dietro a quel “possono” c’è, io credo, una grande quantità di riflessione e di lavoro che bisognerebbe iniziare a fare.