La fumosa iniziativa intitolata OccupyScampia ha lasciato sul campo, come era facile prevedere, molti malumori e nessun beneficio concreto, ma anche qualche spunto di riflessione. La questione del “coprifuoco”, per esempio, al di là del suo significato letterale, non si può negare che sia diventata uno dei tratti salienti delle nostre periferie. E non solo di quelle fatte di torri e vialoni, come Scampia o altri rioni del dopo-terremoto, ma anche di quelle, un tempo centri storici di origine contadina, che ancora conservano un impianto urbanistico a misura d’uomo. Se parlate con la gente che ci abita, questo tema salterà fuori quasi subito.
«Se spari una palla di cannone sul corso alle nove di sera, il tuo colpo andrà a vuoto», mi diceva un signore di Ponticelli qualche giorno fa. Una metafora della desolazione, come quella del coprifuoco. Dopo le otto, nessuno più in strada, nemmeno il fine settimana. Il retaggio paesano dello struscio sul corso, i capannelli di gente che discute, la sosta per il gelato, restano nella memoria degli anziani. Non che prima le periferie traboccassero di cinema, teatri e night club, ma la strada, appunto, era ancora un baluardo di socialità, ed era alla portata di tutti. Ora i giovani si mettono in macchina e vanno al centro commerciale, oppure girano in tondo lungo i caotici assi viari dell’hinterland. E beati loro, perché agli altri non rimane che starsene a casa.
Negli ultimi decenni le periferie sono state oggetto di progetti ambiziosi e di un dibattito politico sempre vivace, fin dai tempi del “piano delle periferie” di Valenzi, poi scavalcato in maniera nefasta dall’emergenza (e dalle valanghe di soldi) del dopo-terremoto, per arrivare alle riqualificazioni mancate di Bassolino e di Iervolino. Ma le periferie sono state anche una fucina di esperienze, alcune edificanti, altre drammatiche, che hanno saputo imporsi alla città intera, influenzandone i linguaggi, i modi di viverla e di pensarla. Oggi, dopo questa lunga esposizione, le periferie sembrano tornate nell’ombra. I progetti edilizi e urbanistici, quelli promossi dai privati per non parlare di quelli pubblici, sono tutti bloccati. Ma il fatto nuovo stavolta è che non esistono prospettive, nessun piano di rigenerazione, nessun rinascimento a venire. Sul tema, governanti e imprenditori – chi per prudenza, chi per disattenzione – preferiscono il silenzio.
È probabile che chi ha promosso l’occupazione di Scampia via Twitter (diciamo quelli sinceri), chi parlava di accendere un riflettore, avesse in mente anche questo. Ecco allora un altro effetto collaterale dell’iniziativa, che mette in questione i modi dell’intervento politico ma anche quelli del fare informazione. È vero, infatti, che i gruppi e le associazioni che ogni giorno si adoperano per tenere insieme il tessuto sociale di questi luoghi disgregati, sono spesso incapaci di rompere il silenzio che avvolge i loro territori. La domanda però riguarda il metodo e gli obiettivi di un’azione del genere. Era questa la strada migliore per attirare l’attenzione? Cosa si costruisce in questo modo, e cosa si rischia di rompere? Una risposta c’è stata, come dimostra la magra riuscita dell’incontro. La maggioranza degli abitanti non è stata nemmeno sfiorata dalla notizia; gli altri, quelli più attivi e avveduti, l’hanno presa come una scorciatoia poco credibile per aggirare la fatica, ma anche la ricchezza, che comporta la costruzione di ogni iniziativa sul campo. Eppure, dice qualcuno, in questo modo si ottiene visibilità, si accende una luce. Se questa è la luce, viene da pensare d’istinto, meglio il buio.
Ma poi si fa strada un pensiero più costruttivo, che chiama in causa chi racconta per mestiere la nostra città. Se invece di accanirsi a cercare questo ambiguo e poco costruttivo fulgore, si cominciasse a pretendere, e a praticare – a partire dagli OccupyScampia, tra i quali si annoverano tanti giornalisti – un racconto nuovo della periferia, più assiduo innanzitutto, meno legato alla cosiddetta “notizia”, meno schematico e scontato; che abolisca dal suo lessico tante paroline che ormai non spiegano più nulla, e che rivolga finalmente lo sguardo verso l’immensa zona grigia tra il nero dei delitti e il bianco del ben fare, che pure custodisce centinaia di storie che attendono di essere narrate. Ci sarebbe, in questo modo, un dibattito più ricco di elementi e quindi più equilibrato, meno inquinato dai luoghi comuni, e forse meno urgenza di rompere l’assordante silenzio che si genera spesso tra un clamore e l’altro, forse perché non esisterebbe più quel silenzio…
Qualcuno, a margine dell’iniziativa, ha anche lanciato l’idea di un’agenzia permanente di informazione su Scampia. Non è una cattiva idea, purché si sia consapevoli di quali risorse, capacità, dedizione e originalità, richieda un’impresa del genere. Sarebbe triste se si trattasse solo di un pretesto per attirare l’attenzione. Di annunci, di questi tempi, ne sentiamo già parecchi. (luca rossomando, la repubblica napoli, 5 febbraio 2012)