“Prova a immaginare: tuo fratello o tuo figlio parte e non dà più notizie di sé dopo la sua partenza. Non è arrivato? Non lo sai… Aspetti qualche giorno, guardi in televisione immagini del luogo in cui potrebbe essere arrivato, per sperare di vederlo. Capisci anche che tuo figlio o tuo fratello non è l’unico a non aver telefonato dopo essere partito. Insieme alle altre famiglie chiedi allora alle autorità del tuo paese di informarsi, ma queste non fanno nulla. Nel frattempo fai presidi, manifestazioni, parli con i rappresentanti di alcune associazioni, con i giornalisti. Vuoi sapere. Non accade nulla e cominci a immaginare: potrebbe essere in una cella d’isolamento, potrebbe essere stato arrestato, potrebbe essersi rivoltato nel centro di detenzione, potrebbe… Potrebbe essere in Italia, ma forse a Malta, forse in Libia…”. (Dall’appello per i migranti tunisini dispersi)
Con la caduta del regime di Ben Ali, il 14 gennaio scorso, è iniziato un grande esodo di giovani (non solo dalla Tunisia) verso le coste italiane. Si stima che i tunisini arrivati in Italia, tra gennaio e dicembre 2011, siano ventiduemila. Di questi molti sono dispersi, alcuni sicuramente morti: storie e vite spezzate di cui sarà molto difficile ricostruire i percorsi. In questo incrocio di storie alcune sono state intercettate: si tratta delle vite di coloro che sono partiti dalla Tunisia verso l’Italia tra il 1° e il 19 marzo 2011. A farlo è un comitato che riunisce i familiari di questi ragazzi – una lista di duecentotrenta persone – e alcune associazioni italiane (l’associazione “Pontes” dei tunisini in Italia, il gruppo femminista “Le Venticinqueundici” di Milano, “Tunisia Libera” di Tunisi, il gruppo “Tunisini di Parma” e il collettivo ZaLab): insieme hanno lanciato una campagna, “Da una sponda all’altra: vite che contano. Dove sono i nostri figli?”.
Federica Sossi, della redazione di Storie Migranti e membro di Le Venticinqueundici, spiega che la campagna sta cercando le persone che erano su quattro imbarcazioni ben identificate. Quali sono lo racconta Wejdane Majeri, portavoce dell’associazione Pontes, in un comunicato diffuso in francese: “Le quattro barche sono partite una L’1 marzo, una il 14 marzo e due il 29 marzo 2011. La prima è partita da Tabarka con a bordo ventidue persone, tra cui una donna e un bambino, e sarebbe arrivata a Linosa la notte, stando alle telefonate che il 2 marzo hanno ricevuto alcune famiglie di coloro che erano a bordo. Queste persone, secondo un servizio del Tg3, sarebbero state trasferite a Lampedusa. L’imbarcazione del 14 marzo è partita da Jbeniana con a bordo sessantuno persone. Di questa non si ha notizia del naufragio: si sa solamente di una telefonate fatta da un ragazzo a bordo al fratello in Francia, nella quale diceva di essere quasi arrivato e di vedere le coste italiane. Ma di queste sessanta persone non si hanno notizie. Il 29 marzo, invece, sei barconi partono dal sud della Tunisia e due in particolare, con a bordo sessantadue e ottantasei persone, da Sidi Mansour. Di questi, alcuni sono stati riconosciuti dalle famiglie nel porto di Lampedusa dalle riprese televisive”. Inoltre, aggiunge Federica Sossi: «Va fatta una precisazione sul termine “disperso”. Spesso viene usato per persone il cui corpo non viene ritrovato, ma che si presume siano morte. Nel caso specifico di queste quattro imbarcazioni non c’è notizia del naufragio, anzi, ci sono riprese video nelle quali i famigliari dicono di aver riconosciuto i loro figli».
Sul dato generale, invece, precisa Wejdane Majeri: «Il numero dei dispersi tunisini nell’anno 2011 si avvicina a mille. La cifra traspare anche dalle informazioni indicate dalle rappresentanze consolari tunisine in Italia e dalla stima delle imbarcazioni partite dalla Tunisia che non hanno più dato notizia». Ma di questi non è stata fatta ancora alcuna denuncia formale. La campagna “Da una sponda all’altra” si occupa di coloro che erano su queste quattro imbarcazioni. «I familiari hanno manifestato, sia fisicamente che formalmente, presso il ministero degli esteri tunisino», dice Hamadi Zribi, che dalla Tunisia coordina i lavori con le associazioni italiane. Una delegazione dei genitori di questi duecentotrenta ragazzi è venuta in Italia per cercare i figli.
A rendere ancora più complicato il ritrovamento di queste persone c’è una supposizione: potrebbero, una volta arrivati, aver declinato false generalità per paura di essere rispediti a casa se identificati come tunisini. Fino al 5 aprile infatti – data nella quale il governo italiano e quello tunisino hanno firmato il “patto sull’immigrazione” che ha dato il via ai rimpatri – chi arrivava poteva beneficiare di un “permesso di soggiorno umanitario” e quindi uscire dai Cie (Centri di Identificazione ed espulsione) e, presumibilmente, contattare la famiglia. «I familiari pensano che questi ragazzi siano ancora nei Cie o in carcere, perché altrimenti avrebbero chiamato per dare notizie», dice Hamadi.
Come fare per ritrovarli? La campagna chiede che vengano confrontate le impronte digitali raccolte nei Cie con quelle in possesso del governo tunisino. In Tunisia, infatti, per avere la carta d’identità vengono prese le impronte. Esiste, quindi, un metodo certo per avere dei riscontri. Per questo è stata fatta, da parte dei genitori dei ragazzi scomparsi, una richiesta congiunta ai due governi. Federica Sossi precisa, inoltre, che «quello che viene chiesto non è un controllo a tappeto in tutti i Cie, cosa che potrebbe solo far espellere più persone, ma una ricerca specifica su queste persone».
Il solo risultato, al momento, è un’interrogazione parlamentare che Livia Turco e Gianclaudio Bressa (Pd) hanno rivolto, lo scorso 13 gennaio, al neo ministro degli interni, Anna Maria Cancellieri. L’interrogazione parla, a causa della confusione iniziale, di oltre cinquecento persone, ma almeno fa presente il problema. Alcuni sono stati intravisti dai familiari nei servizi girati in questi mesi a Lampedusa. Faouzi Hadeji, fruttivendolo a Genova e fratello di Lamjed, partito il 29 marzo da Sfax, ha riconosciuto suo fratello in un servizio televisivo e ha dichiarato alla stampa: «Sto diventando pazzo perché ho visto mio fratello in video, a Lampedusa, ma sono nove mesi che non lo sento. Prima di imbarcarsi, mi aveva promesso che mi avrebbe raggiunto a Genova, ma non è mai arrivato. Vorrei sapere dove si trova». (francesca barca)