da Napoli Monitor n. 46, febbraio 2012
Come molti sapranno Agenda 2000 è stato lo strumento di promozione dello sviluppo che su impulso dell’Unione europea e attraverso il Programma Operativo Regionale Campania 2000-2006, ha portato in regione finanziamenti per circa otto miliardi di euro che dovevano essere finalizzati alla crescita dell’occupazione e alla creazione di infrastrutture per colmare il divario di sviluppo con il resto del Paese. Oggi, grazie a un rapporto elaborato dal Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici della Regione (Analisi valutati- ve ex post del POR Campania 2000-2006) è possibile farsi un’idea chiara sull’eredità lasciata da questo imponente flusso finanziario e le sue ricadute sulla reale situazione sociale ed economica del territorio. Una lettura interessante, anche per analizzare i punti nodali e le scelte che hanno riguardato una stagione di governo del centro-sinistra che in avvio aveva generato tante speranze.
L’analisi presenta un quadro che si può ben definire agghiacciante. I fondi europei gestiti dalla regione, in un periodo che va dal 2001 al 2009, non solo sono stati utilizzati male ma paradossalmente sono stati addirittura controproducenti, andando ad aggravare la situazione di crisi economica o arretratezza che invece intendevano alleviare. Tre indicatori evidenziano l’uso scriteriato che se n’è fatto: il Pil regionale, quello pro capite e l’occupazione.
Il prodotto interno lordo campano nel 2001 era poco più di 77 miliardi di euro, e nel 2009, nonostante gli otto miliardi di fondi di sostegno, era sceso a 74. Ne- gli anni 2008 e 2009 il manifestarsi della crisi mondiale ha comportato in Campania un calo del Pil vicino all’8%, il risultato peggiore fra quelli conseguiti da tutte le regioni del Mezzogiorno, a fronte di un dato nazionale pari al 6,3%. In questo modo, la Campania è ritornata, nel 2009, al di sotto dei valori del Pil misurati nel 2000, con una contrazione reale (tra 2007 e 2009) superiore ai sei miliardi di euro. Per non dire del Pil pro capite, cioè la misura del livello di benessere dei singoli e della popolazione: da 13.190 euro si è passati a 12.776. Per quanto riguarda l’occupazione, nel 2000 lavoravano 1.723mila persone, dopo nove anni gli occupati si fermano a 1.677mila.
Ma quali sono state le ragioni di questo incredibile flop? Innanzitutto le politiche per il mercato del lavoro, si legge nel rapporto, sono state caratterizzate da polverizzazione delle risorse e da interventi sui quali ricadono procedure di infrazione attivate e/o provvedimenti giudiziari a causa di una gestione politicizzata e clientelare. L’estrema frammentazione ha interessato anche gli interventi in campo infrastrutturale. Sono stati infatti rendicontati nell’ambito del POR circa 4.500 progetti per un valore complessivo di 5,6 miliardi di euro e un valore medio pari a poco più di 900.000 euro. L’esame dei progetti superiori ai dieci milioni di euro ha evidenziato l’assenza di interventi a scala intercomunale, interprovinciale e, ancor meno, a scala regionale, dato a cui fa da contraltare la concentrazione dei progetti più rilevanti nell’area della città di Napoli.
Ad abbassare ancor di più l’impatto del POR ha contribuito il ricorso massiccio alla progettazione coerente, ovvero la rendicontazione di progetti nati e attuati in un diverso contesto. Trattandosi di spese in gran parte già realizzate negli anni precedenti, i progetti sponda non hanno apportato alcun beneficio all’economia regionale: i loro effetti sull’occupazione, sulla crescita del prodotto, sul miglioramento del contesto territoriale, si erano, infatti, già esauriti nel tempo. Anche il dato relativo ai tempi di realizzazione presenta notevoli criticità: un numero rilevante di interventi infrastrutturali non si è, infatti, concluso nei tempi previsti per inadeguatezza delle fasi di progettazione e realizzazione.
In sostanza migliaia di microprogetti, iniziative sponda, procedure di approvazione dei progetti complicate e tortuose, un sistema pubblico elefantiaco quanto inefficiente per l’assenza di personale tecnicamente qualificato, hanno comportato un radicale stravolgimento del programma dal punto di vista dell’efficienza e un impatto sul sistema economico e sociale non misurabile, ma da stimare come praticamente nullo. Una situazione che ha tuttavia consentito una redistribuzione del reddito poco trasparente quanto finalizzata a comprare il consenso di una larga fetta della popolazione campana che viveva e vive di assistenzialismo diretto o indiretto.
Lo scenario è quello di una regione, ma si può dire lo stesso anche per gran parte del Mezzogiorno, che, in pratica realizza una secessione all’incontrario. Una regione che non riesce ad affrancarsi dal suo cronico sottosviluppo, per le politiche di mera riproduzione di un ceto politico totalmente inadeguato. Gli anni che abbiamo alle spalle sono stati anni di relativa “pace sociale”, quelli che abbiamo di fronte promettono di essere percorsi da tensioni sociali fortissime. Con la chiusura del rubinetto della spesa pubblica, un settore industriale in inesorabile declino, un turismo che comincia a risentire dell’uso dissennato del territorio, una criminalità organizzata endemica, un ceto politico orbitante nell’area grigia del clientelismo e dell’affarismo, una popolazione giovane ma afflitta da una disoccupazione altissima (quasi uno su due non lavora, ma molti non la cercano più un’occupazione) e che vede ormai nell’emigrazione l’unica opportunità da cogliere, la Campania si trova a fronteggiare uno quadro composto da molti rischi. In sostanza, se fosse uno stato indipendente molto probabilmente sarebbe, come la Grecia, già sull’orlo dell’abisso. (alfredo amodeo)