In questi giorni si è parlato di Mourinho, di tiquitaca, di Guardiola, del Chelsea e, ovviamente, del Napoli. Provo a dire la mia a riguardo. Come la maggior parte dei napoletani, speravo che il Chelsea venisse eliminato dal Barcellona. La mia posizione era dettata, oltre che da una sorta di sentimento di rivalsa, da una certa obiettività sportiva che mi imponeva di pensare che la squadra di Di Matteo non meritasse la finale perché aveva un gioco sporco, oserei dire sudicio in certi casi. Dall’altra parte, però, non mi aggradava neanche il Barcellona. Quel gioco di passaggi che portano allo sfinimento degli avversari è un’idea di calcio che mi è lontana, mai vorrei vedere la mia squadra giocare in questo modo. È la presunzione di poter arrivare in porta anche senza tirare (i tiri del Barcelona sono quasi sempre “appoggi” in rete) che mi disgusta. Per questo quando il Chelsea, un uomo in meno, ha deciso di erigere un muro dinanzi alla propria porta, rinunciando ad attaccare, ho cominciato a divertirmi. Vedevo la crisi di fede negli occhi dei giocatori del Barcellona, qualcuno cominciava a dubitare dei precetti scritti su enormi fogli negli spogliatoi: “L’80% di possesso è cosa buona”, “120 passaggi per arrivare in porta è cosa giusta” e così via. E in cuor mio speravo che il Chelsea reggesse, perché tutti, ma proprio tutti – me compreso – , con Messi pronto a tirare il rigore avranno detto: «Ora ne prendono dieci».
Quando ti chiudi in modo così spudorato è logico che dall’assedio prima o poi venga fuori qualcosa. Nel caso del Barcellona non era così, e lo sapevo. Perché contro il gioco sudicio del Chelsea serviva una squadra, se non sporca quanto i blues, almeno smaliziata. Invece si assisteva a fenomeni che continuavano a passarsi il pallone, senza cercare mai il tiro da fuori, la palla in area, la spizzata, il rimpallo. Se, ragionando per ipotesi, il Chelsea si fosse chiuso allo stesso modo ma di fronte avesse avuto il Novara, sicuramente non avrebbe passato il turno. Perché squadre così non ci pensano su due volte (o mille, come il Barcellona). Squadre mediamente dotate sanno cosa fare di fronte alle barricate: tirare, tirare, tirare, creare il disordine. Ci sarebbe stato un pallone messo in mezzo da Morganella, deviato da Caracciolo, carambola su Bosingwa, gran botta di Porcari.
A tutto questo ha contribuito la stampa acritica e incompetente, che esaltava il Barcellona per ogni goleada contro Sporting Gijon e compagnie belle. I giornali parlavano di marziani, di squadra imbattibile, creando così enorme sudditanza in chi doveva affrontarli e, soprattutto, nello spettatore passivo. Premetto che il Barcelona è certamente una delle squadre tecnicamente più dotate che il sottoscritto abbia mai ammirato nella sua vita. Fare dell’enorme tecnica individuale una tecnica di squadra è senz’altro cosa positiva. Tuttavia il Barcellona è, negli ultimi tempi, diventata una squadra fastidiosa, presuntuosa, a cui tutto sembra dovuto. Ha abbandonato il significato per il significante, del calcio spumeggiante sono rimaste solo le bollicine, il gioco del Barcellona è diventato il gioco “stile Barcellona”. E questo è il punto di rottura. Ora anche lo Sporting Gijon capirà che nessuna partita è persa in partenza (lo diceva Boskov, mica è una banalità da bar).
Ieri si è giocata Real Madrid – Bayern. Alcuni amici già da giorni si punzecchiavano, c’è chi sostiene Mourinho e chi esalta il Barcellona, si capisce che le due categorie non vadano d’accordo. Personalmente apprezzo Mourinho allenatore, del personaggio Mourinho invece me ne importa poco. Il portoghese sa certamente come organizzare una squadra compatta, che regge bene la fase difensiva e va in porta con tre passaggi (di cui uno, come ieri, magari è sbagliato). Il Bayern, se possibile, è una squadra speculare. Ha dalla sua, però, una ferocia encomiabile. Due esterni perfetti: Alaba e Lahm, diversi ma complementari. Un portiere che sa essere decisivo e leader, Neuer, probabilmente il migliore nel suo ruolo in Europa. Robben e Ribery sembrano intendersi alla perfezione e Mario Gomez è nel suo anno di grazia. La partita era aperta, il che è uno spettacolo raro al giorno d’oggi: due squadre davvero forti, pochissime sbavature in difesa, reti ben congegnate. Probabilmente la finale più “giusta” sarebbe stata la semifinale di ieri sera. L’unica pecca in campo era Sami Khedira, un sopravvalutato.
Chiudiamo con due riflessioni sul Napoli. In molti hanno detto che in finale di coppa Campioni ci arrivano due squadre contro cui il Napoli ha giocato partite più che degne. Questo è un dato di fatto. Al tempo stesso, non significa niente. Questo non vuol dire, ad esempio, che gli azzurri meritassero la finale, o la semifinale, o semplicemente il passaggio del turno contro il Chelsea. A Lecce però si è rivisto il Napoli cinico di inizio anno, quello che lasciava presumere un’annata trionfale, quello che inventava e capitalizzava. Nella lotta per il terzo posto il Napoli è favorito, ora. La Lazio è in grave calo atletico, e l’intelligente calcio di Reja (un allenatore brillante come pochi, che sa adattarsi ai tempi) non trova sbocco senza vigore fisico. L’Udinese pensa già al prossimo anno. La Roma è in crisi nera (il discorso tiquitaca si potrebbe riaprire sotto un’altra ottica: quanto sono tristi gli allenatori che vogliono imitare altri allenatori? Dopo Sacchi, tutti i “sacchiani” hanno fallito, Villas-Boas, il “mourinhano”, è insipido come pochi, e infine Luis Enrique che in camera ha il poster di Guardiola e poi prende quattro ceffoni a Lecce). L’Inter appare in ripresa, sì, ma è pur sempre costretta a inseguirci. Grazie Peppe Mascara, lo sapevo che, direttamente o indirettamente, avresti contribuito alla risalita in campionato. (el trinche carlovich)
Post scriptum – Manlio Scopigno diceva: «Il calcio è un castello le cui fondamenta sono le bugie. Io dico pane al pane e brocco al brocco e passo per un tipo bizzarro. Tutti gli altri, dal mago Helenio al mago di Turi passando per l’asceta Heriberto, sono tipi regolari».