da Napoli Monitor n° 48, aprile/maggio 2012
È passato un anno dalla vittoria di Pisapia. Era il 30 maggio 2011 e piazza del Duomo si riempì di persone che non avevano avuto più nulla da festeggiare da oltre vent’anni. L’ultima occasione in cui il popolo della sinistra aveva esibito il proprio senso di appartenenza era stato il 25 aprile 1994. Sotto il diluvio, pochi giorni dopo la prima vittoria di Berlusconi, si ricordò con rabbia chi era morto in montagna nel nome di un’Italia migliore. L’anno prima, nel 1993, un modesto euroburocrate di nome Marco Formentini, assoldato dalla Lega, aveva sconfitto per poche migliaia di voti Nando Dalla Chiesa, sobrio rappresentante della società civile che non era venuta a patti con la Milano da bere. I sindaci che seguirono, Albertini e Moratti, furono rispettivamente modesti e incapaci. Definire storica, almeno a livello locale, la vittoria di Pisapia, non è quindi fuori luogo.
Il venticello che ha portato alla sua elezione si era levato un anno e mezzo prima, quando una generazione di quaranta-cinquantenni si era ribellata contro la scuola pubblica disegnata dal ministro Gelmini, che azzerava tutte le conquiste fatte dai loro genitori negli anni Settanta. Furono le prime forme di autorganizzazione alla base dei comitati elettorali che i tre concorrenti alle primarie del centro-sinistra – ma forse sarebbe meno ipocrita dire della sinistra – costituirono a partire dall’agosto 2011. La vittoria di Pisapia, che seppe aggregare meglio di Boeri (troppo radical chic) e di Onida (troppo cattolico benpensante) fu un buon viatico allo scontro con Letizia Moratti, sindaco uscente e che disponeva di quasi illimitate risorse economiche da investire nella propria rielezione. Oggi forse, in un momento di caduta libera del centrodestra e di forte difficoltà della Lega Nord (mai però troppo radicata a Milano), si può sottovalutare il peso dell’opponente, ma un anno fa, Berlusconi regnante, faceva una gran paura.
Pisapia, pessimo oratore, ebbe dalla sua tutta la facondia di Niki Vendola il quale, dopo la vittoria, cercò di riscuotere i propri meriti ricevendo dal sindaco risposte di mera cortesia. Un buon segnale di indipendenza. Pisapia, col suo fare dimesso e moderato piacque ai milanesi e dimostrò fiuto politico fin da subito. La composizione della giunta, con molte donne che provenivano dalla società civile, con Bruno Tabacci (UDC ma già presidente DC della Regione Lombardia) assessore al bilancio, con l’(ex) rivale Boeri alla cultura e con pochi assessorati offerti a giovani ma già abbastanza navigati esponenti locali del PD, si è finora rivelato nel complesso positivo. Le notizie degli scontri con Boeri, che hanno portato al ritiro della delega sull’Expo, hanno raggiunto le pagine nazionali, mentre il resto della squadra è fin a ora compatta e fedele al sindaco.
La prima mossa del Pisapia fu di assoluta realpolitik: l’accordo con Formigoni, presidente di regione ancora non in disgrazia, per la divisione dei compiti dell’Expo 2015, un fantasma che aleggia sulla città da qualche anno e che ancora sconta uno scetticismo – «Ma ci sarà veramente?» – che non si confà allo spirito cittadino. Bisognerebbe chiedersi perché. La risposta sta forse nel disincanto di questi anni. I primi mesi della giunta sono stati abbastanza balbettanti, per l’inesperienza generale, perché l’insediamento ha coinciso con un trapasso di stagione politica e, soprattutto, per gli effetti della crisi economica mondiale. Prima ancora che la politica, il mood di una città che ha nell’intraprendere e quindi nel denaro la sua storica ragion d’essere, si misura con le conseguenze di una crisi finanziaria che poi, a ben vedere, è il mutamento di un modello di produzione economica. I segnali sono molti: diminuzione del traffico in entrata e uscita dalla città, concentrazione della vita notturna in due-tre sere la settimana (prima era toujours dimanche), aumento dei cartelli “affittasi” e rallentamento del mercato immobiliare (mentre, però, si costruiscono una serie di grattacieli come non accadeva dagli anni Sessanta, anche se il progetto Citylife – tre grattacieli affidati ad archistar nell’area dell’ex Fiera – stenta a decollare), insieme a circostanze di vita quotidiana che fan riflettere. Mai avevo visto, a Milano, camerieri che invitano i passanti a entrare a nei locali per consumare, ristoranti di nuova apertura dove il proprietario discorre con i camerieri per un’intera serata in attesa del primo cliente, accattonaggio a livelli ottocenteschi senza la penna di Carlo Porta a restituirne i tratti. L’efficienza della Caritas ambrosiana, a cui in effetti si delega buona parte della gestione del disagio sociale, nasconde gli spettacoli più crudi, ma è certo più facile osservare gli effetti della crisi a Milano che nei piccoli centri.
La giunta Pisapia ha in generale buon gioco, attraverso i suoi molti emissari, a dire che «non ci sono soldi» e «non sappiamo quando verrà votato il bilancio comunale». Sono risposte veritiere, ma senza il minimo slancio, che i funzionari comunali danno a cittadini e associazioni che vorrebbero trovare sponde al dinamismo della città. A me pare, infatti, che ancora non sia scomparso lo spirito di partecipazione ricomparso negli ultimi anni. Non si sono disciolti i “comitati Pisapia” (anche se non si capisce bene quale sia la loro funzione), i consigli di zona attendono notizie sul decentramento amministrativo per poter agire con maggiore efficacia. Insomma, qualche nucleo di democrazia dal basso esiste. È anche vero che il credito del sindaco è ancora nel complesso intatto, pur essendo pochi i risultati raggiunti: l’istituzione dell’area C, che regolamenta gli ingressi nel centro storico tra grandi lamentele dei negozianti ma con un effettivo miglioramento del traffico; il registro delle coppie di fatto, i vigili di quartiere, qualche pista ciclabile, lo sgombero di alcuni campi rom (eh si, la maggior parte dei cittadini plaude).
Tra i meriti meno tangibili, una giunta finalmente dialogante con i cittadini o perlomeno che ascolta (sembra poco ma è un principio di democrazia) e, più importante, un recupero di legalità che si è visto nelle nomine alle municipalizzate, nell’impostare i dossier più scottanti nelle aree suscettibili di speculazione edilizia. Il sindaco ha probabilmente sbagliato su Expo, che rischia di lasciare in eredità alla città nuove colate di cemento con un sistema infrastrutturale inadeguato. Non deve sbagliare sulla eventuale vendita delle municipalizzate, così come un passaggio delicato sarà l’approvazione del PGT (Piano del Governo del Territorio), occasione in cui la città si gioca una buona parte del suo futuro. Milano vive ancora sull’eredità di un sistema di welfare che nasce nell’alveo del riformismo socialista di Turati: i bambi- ni milanesi possono andare nelle colonie estive, le biblioteche di quartiere esistono, “il comune di Milano non lascia per strada nessuno”, come si diceva in Rocco e i suoi fratelli. È un modello molto ammaccato, ma ce ne sono di alternativi?
La Lega sta tramontando, Formigoni viene mandato a picco dai suoi padrini, Salvatore Ligresti sembra giunto a fine corsa nonostante le premure di Mediobanca che vorrebbe salvarlo. Insomma, Pisapia e la sua giunta hanno un grande spazio politico davanti a loro. Se riusciranno a elaborare un nuovo modello sociale partecipato, Milano potrà recuperare la sua storica funzione di avamposto d’Europa nell’Italia dei monsignori e delle signorie. (alberto saibene)