Articolo pubblicato da La Repubblica Napoli di venerdì 1 giugno 2012.
Nella trasformazione profonda e diffusa che stiamo vivendo cambiano e quasi spariscono alcune funzioni lasciando liberi i manufatti che nelle città hanno avuto anche un ruolo simbolico. A Napoli ci troviamo con centinaia di ex-qualcosa: ospedali, caserme, macelli, stazioni, conventi, chiese, scuole che costituiscono un patrimonio di grande rilievo ma spesso in cattive condizioni, con molti vincoli che non consentono un qualsiasi riuso di questi beni. Pertanto in una città costipata, affamata di spazi per servizi e funzioni pubbliche, per vari tipi di popolazione, abbiamo centinaia di contenitori abbandonati o del tutto sottoutilizzati.
In questi giorni leggiamo delle decisioni sull’uso dell’Ex asilo Filangieri, degli investimenti di molti milioni per fare interventi di recupero e rifunzionalizzazione di chiese ed ex conventi. Da tempo l’ex-convento dell’ospedale Gesù e Maria, dietro piazza Mazzini è stato lasciato dalla ASL che riesce solo a pensare di murarlo per evitare rischi di usi scorretti. Ho iniziato a seguire la questione dell’ex-ospedale militare nel 1982 e ancora oggi quel complesso accoglie funzioni provvisorie oltre a un lungo cantiere per la sede universitaria che dovrà insediarsi. Altro caso studio, certamente particolare è l’ex-albergo dei poveri, con parte della sede riattata mentre però sembrano cambiate le condizioni che avevano orientato alcune scelte localizzative. Una storia particolare che insegna forse anche quanto sia necessario stare attenti a non buttare i soldi in studi di fattibilità forse mal concepiti. Recentemente la Curia, con la consulenza gratuita della Facoltà di Architettura, ha avviato un programma – a mio avviso molto timido – di messa a disposizione di chiese, congreghe e cappelle per raccogliere proposte di recupero e riuso. Vi sono poi decine di ex-scuole costruite nelle periferie anche da pochi anni, manufatti destinati a servizi e attrezzature mai avviati che in quartieri disagiati fanno piangere il cuore rispetto alla fame di servizi che c’è. Considerando poi anche gli ex-opifci ci troviamo di fronte ad una grande questione di riciclo che parla del necessario ripensamento che dobbiamo condividere sul come vivere in città, quali dovranno essere i modi e le forme di riproduziione della ricchezza, della cultura, del legame sociale.
A Napoli è necessario un programma strategico che mentre costituisce una banca dati capace di adattamenti e aggiornamenti progressivi, definisca in un quadro unitario cosa pensano di fare in merito a questo grande patrimonio il Comune, la Regione, la Curia e gli altri interlocutori pertinenti. Il parco progetti e il programma redatto per il centro storio per l’Unesco sono state occasioni perse diventando sostanzialmente un elenco di lavori pubblici. C’è qui un altro nodo: si tratta solo di questione di architetti e ingegneri, con storici dell’arte con diritto assoluto di veto, oppure occorrono altre competenze, non solo economiche, indispensabili per costruire ipotesi efficaci?
In merito al riuso di questo capitale cosa pensiamo potrà essere Napoli fra venti anni ? Temo che ci siano addetti ai lavori che immaginano una sorta di città museo ove milioni di persone appassionate di storia dell’arte antica saranno animate dal desiderio di soggiornare in città per visitare alcune centinaia di monumenti aperti solo per tale fruizione estetica, con qualche deroga per gruppi di canto gregoriano. In diversi paesi europei da tempo nei luoghi della storia si collocano ristoranti, ritrovi, palestre. Perché non pensare a forme di apertura controllata al mercato, destinando almeno parte di questi beni a funzioni che hanno veramente una domanda? Perché non immaginare destinazioni abitative per gruppi particolari?
Per essere molto concreti si pone subito una questione: tenendo conto dei limiti dei finanziamenti pubblici per riattare e poi per gestire e manutenere questi beni, pensiamo di trattare tutto come un patrimonio da gestire sotto vetro, una sorta di imbalsamazione diffusa di centinaia di contenitori oppure pensiamo che si possa discutere del principio secondo cui una buona conservazione non è tale senza una significativa trasformazione? In altre parole, per esempio, possiamo dirci soddisfatti sull’effettiva utilizzabilità della piazza d’armi e degli altri spazi di Sant’Elmo – ove fra l’altro da molto tempo un ristorante completato per qualche motivo non viene aperto – oppure dovremmo considerare una visione diversa che veda con favore nuovi usi, anche meno aulici, che pur lavorando sul senso e sulla memoria dei luoghi assuma il dato che il Novecento è finito ? (giovanni laino)