Mahamed ha lasciato l’Eritrea nel 2005. L’8 settembre del 2008, dopo un lungo e rischioso viaggio attraverso il Sudan e la Libia, è sbarcato a Lampedusa. Dopo sette anni dalla sua partenza, anche M., il fratello di Mahamed, ha deciso di partire. Quando Mahamed è partito l’allora governo Berlusconi era in accordi con il regime di Gheddafi per contrastare l’immigrazione clandestina; oggi che a viaggiare è suo fratello, il governo Monti ha siglato un nuovo accordo con l’attuale ministro degli interni libico, del tutto simile a quello precedente.
La storia di Mahamed e di M. è una preziosa testimonianza delle violazioni dei diritti che la Libia commette contro i migranti, ieri come oggi, anche grazie al supporto dell’Italia.
«Sono Mahamed e vivo qui in Italia da circa quattro anni. Prima vivevo in Eritrea, ad Asmara, lì sono nato e cresciuto, lì ho studiato e lavorato. Poi sono partito militare, l’ho fatto per dieci anni. Nel 2005 ho deciso di lasciare, ho lasciato perdere. Sono andato in Sudan, ma dopo tre anni ho deciso di continuare l’immigrazione, così ho attraversato il deserto, il famoso deserto. Mi mancano le parole per descrivere che cos’è questo deserto. Non c’è vita lì, non vedi una cosa verde. Tutto nudo e dune. Pieno di scheletri di persone morte. Abbiamo viaggiato per quasi dieci giorni. Ci sono delle jeep, con circa trenta persone. La jeep cammina a centosessanta chilometri all’ora, tu quando cammini senti proprio rumore, come un aereo che si sta muovendo prima di decollare, lo stesso rumore. Dieci giorni così. Per arrivare in Libia. Ma prima di arrivare ci sono molti ostacoli. Ci sono i pirati, i pirati del deserto. Loro vengono e ti chiedono soldi. L’unica parola che conoscono è “dolar”. Superati i pirati, ci sono i trafficanti di uomini, che in mezzo al deserto ti chiedono altri soldi, duecento, trecento, come vogliono loro, altrimenti ti lasciano lì. Se non paghi rimani nel deserto.
In Libia, alla frontiera, appena entri, ci sono i soldati. A noi ci hanno preso e ci hanno portato in una valle vicino a Kufra, in mezzo a due montagne, dove ci hanno chiesto altri soldi. Da Kufra dopo qualche giorno siamo partiti verso Tripoli. Anche qui c’è deserto e il viaggio è molto lungo, circa milleduecento chilometri. Ti mettono su un furgoncino, ti mettono lì come se fossi merce. Ti coprono con una tenda, per fare finta che stanno portando merce, ma a noi la polizia ci ha trovato. Mi ricordo che un poliziotto ha alzato la tenda e ha detto «Ah si? Questa è merce? …Avete ragione, questa è merce». Mi ricordo queste parole, perché parlava arabo e l’ho sentito.
La polizia ci ha scoperto a Agedabia, e lì ci hanno portato in prigione, a me e alla mia ragazza ci hanno separati per una settimana. Però per fortuna il trafficante mi aveva detto: «Tu non devi dire di essere eritreo, se no ti portano alla prigione di Kufra». Perciò io lì ho cambiato la mia identità, dicevo di essere somalo. Poi un giorno il direttore ha deciso che le coppie sposate potevano uscire, così lei ha detto di essere mia moglie e siano usciti. Ma questa non è stata una liberazione vera, perché il direttore della prigione ha accordi con i trafficanti. Ti dicono: «Sei libero, vai», ma quando esci dal cancello fuori ti aspettano i trafficanti con una macchina, ti portano in una casa, ti danno qualcosa da mangiare e ti chiedono seicento dollari.
Da Agedabia ci hanno portato sino a Misrata. Eravamo in sette su un Land Cruiser. Ci hanno sistemato in fila, tutti poggiati su un fianco, e poi sopra ci hanno coperto con una rete, quella con cui si trasporta la verdura. Abbiamo viaggiato così sino a Misrata, per tre giorni. Poi a Misrata finisce questo viaggio di verdura. Da lì devi entrare a Tripoli e per entrare devi assumere l’aspetto di una persona elegante. Ci hanno portato in una macchina piccola, due donne e tre uomini. Ci hanno detto di stare tranquilli, di stare a nostro agio: «Tu, apri anche il finestrino se vuoi», mi hanno detto. Così, tranquilli, siamo entrati, perché questo è il sistema: prima eri merce, ora sei diventato un persona che sta andando in vacanza.
Solo a Tripoli inizia il progetto per attraversare il mar Mediterraneo, perché sino a quel momento pensi solo a come fare ad arrivare a Tripoli. Erano le cinque del mattino del 6 settembre 2008. Abbiamo preso un gommone e lo abbiamo trasportato sulle nostre teste sino alla spiaggia. E poi siamo partiti».
Dopo due giorni di viaggio la barca di Mahamed è rimasta senza benzina. Gli ottantotto natanti, tra cui donne incinte e lattanti, hanno lanciato il soccorso e una nave italiana è andata a prenderli. Oggi Mahamed vive in Italia con una protezione sussidiaria, da rinnovare ogni tre anni, abita in un centro di accoglienza di Roma e lavora come mediatore culturale. La sua ragazza, costretta a rimanere tre anni in Libia per questioni economiche, lo ha raggiunto a maggio del 2011, nei giorni del conflitto libico. Oggi ha ottenuto lo status di rifugiato. Dopo quasi quattro anni Mahamed ancora si sente straniero in Italia.
Dopo cinque anni dalla partenza di Mahamed, anche suo fratello M. ha deciso di affrontare lo stesso viaggio. È partito a gennaio del 2012 e oggi è ancora in Libia, appena può si mette in contatto con il fratello in Italia. Il suo viaggio si sta rivelando ancora più pericoloso di quello affrontato da Mahamed.
«Mio fratello non mi ha mai detto che voleva andare in Libia, all’improvviso, quando è arrivato a Kufra mi ha telefonato e mi ha detto che era lì, era il 24 gennaio del 2012. Sfortunatamente, quando erano a Kufra è scoppiato un conflitto tra due etnie, Zwai e Toubou. Era il 17 febbraio, quel giorno mio fratello mi ha chiamato e mi ha detto che era in mezzo agli spari, e anche io li sentivo, i colpi, dietro la sua voce. Io gli ho detto: «Nasconditi il più possibile, non provare neanche a scappare perché qualcuno ti potrebbe sparare», ma dopo questa telefonata per tre settimane non ho più ricevuto notizie da lui.
Non sempre riesco a parlarci direttamente, perché lui non ha un suo telefonino, ma a volte parlo con i trafficanti, in quei giorni uno di loro mi disse che avevano perso alcune persone, ma che di mio fratello non sapeva nulla. Io ero molto preoccupato, non sapevo a chi potevo rivolgermi, cosa potevo fare. Guardavo il telegiornale libico su internet per cercare di capire se era vivo o no. Dopo un mese fortunatamente mi ha chiamato e mi ha detto che era ancora vivo, grazie a Dio. Si trovava ancora a Kufra.
Ho di nuovo perso le sue tracce, e quando sono riuscito a ricontattarlo mi ha detto che si trovava in un campo profughi gestito dall’Unhcr; ma dopo qualche giorno, all’improvviso sono arrivati i soldati che li hanno carcerati, l’Unhcr non c’era più e loro sono stati costretti ai lavori forzati, pulivano i carri armati. Un giorno li hanno portati in venticinque, a pulire, e quando a fine giornata i ragazzi hanno chiesto i soldi li hanno picchiati. A seguito di questa cosa mio fratello e gli altri hanno fatto per tre giorni uno sciopero della fame, ma nessuno ne parlava. Erano circa seicento persone, tutti lì a fare lo sciopero, ma ai media non sembrava importargliene. Poi ho perso di nuovo le sue tracce. È così con lui, si perde traccia, poi a un certo punto, di nuovo ti fa uno squillo».
Oggi M. si trova a Bengasi e sta cercando di capire come fare ad attraversare il Mar Mediterraneo. Mahamed è molto confuso, vuole che il fratello sia al sicuro e sa che la Libia è un luogo rischioso. Ma sa anche che Lampedusa è meno accogliente rispetto a prima, che il viaggio in mare si sta allungando verso la Sicilia e i barconi su cui si viaggia non sono mai sicuri.
Il 3 aprile scorso, mentre M. lottava tra la vita e la morte nei pressi di Kufra, il nostro governo siglava un accordo a Tripoli. In questi giorni, a distanza di tre mesi, il contenuto dell’intesa è stato reso pubblico: l’Italia continuerà ad aiutare la Libia a contrastare l’immigrazione, attraverso maggiori controlli alle frontiere e finanziamenti per implementare i centri per migranti presenti sul territorio, così come aveva fatto il governo Berlusconi quando c’era il regime di Gheddafi. Nel testo non compaiono mai le parole “diritto di asilo”. (marzia coronati)