Quando mi chiedevano quali fossero le mie aspettative sulle elezioni, nelle settimane precedenti al voto, questa era in genere la mia risposta:
“La situazione sembra piuttosto complicata e difficile da prevedere. Mousa e Shafeek (i candidati di Mubarak, conosciuti anche come feloul, avanzi del regime) prenderanno probabilmente voti da tutte le fasce di popolazione antirivoluzionaria o politicamente non consapevole. Anche la campagna di Morsy, il candidato dei Fratelli Musulmani, sta avendo successo e ha abbastanza fondi per andare avanti. Aboul Fotoh (ex membro dei Fratelli Musulmani e islamico moderato), Sabahy (nasrista /nazionalista) e Khaled Ali (socialista) sono considerati i candidati rivoluzionari, ma l’ultimo non ha abbastanza fondi per una campagna elettorale forte. Una minoranza di attivisti boicotterà le elezioni per diverse ragioni, e io appartengo a questa minoranza”.
Questo era un insieme di pensieri e commenti sparsi che avevo scritto in quei giorni su Facebook, Twitter e altri spazi sul web. Avevo deciso però che non mi sarei fatta coinvolgere in dibattiti politici, e sono riuscita almeno in parte a starne lontano per la mia salute mentale, e anche per evitare pregiudizi e reazioni emotive, cercando di guardare il processo dall’esterno con distacco. Avevo deciso anche di non votare, di non promuovere nessun candidato e non aderire a nessuna campagna proprio per rimanere quanto più possibile un osservatore neutrale.
Devo ammettere che a un certo punto mi erano cominciate a piacere le dichiarazioni di Khaled Ali, su diversi argomenti, e avevo sempre considerato Abul Fotoh una buon candidato per contrastare sia il regime che le chiusure mentali dei Fratelli Musulmani; eppure non era abbastanza per convincermi a cambiare idea riguardo all’intero processo in corso e al concetto del voto.
Il boicottaggio non è stata una posizione diffusa in Egitto, e le persone che hanno coscientemente scelto il boicottaggio come una forma di disobbedienza civile o perché non credevano nel processo di voto non sono state una maggioranza nell’ambito di quel cinquantacinque per cento della popolazione che (ha finito per) non è andata a votare.
Scrivo questo giusto per dovere di cronaca e perché la gente continua a chiedermi chi ho votato nel primo o nel secondo turno delle elezioni, per quanto abbia dichiarato già diversi mesi fa che avrei boicottato qualsiasi elezione che si fosse svolta sotto la supervisione dell’esistente, immutata e onnipotente dittatura militare sotto la quale viviamo.
Allo stesso modo, finché l’assistenza militare degli Stati Uniti e le forti relazioni con il regime, per non dire l’insieme dell’industria militare che controlla il quaranta per cento delle ricchezze dell’Egitto, non avranno fine, mi rifiuto di partecipare in qualsiasi processo supervisionato dal consiglio militare. E potrei fornire ancora tonnellate di ragioni intellettuali, politiche e ideologiche per spiegare i motivi del mio boicottaggio, ma per ora mi sembra sufficiente dire che è soprattutto perché mi sono resa conto che il sangue, l’anima e i sacrifici degli egiziani rimarranno la merce più a buon mercato nel mio paese finché questa gente rimarrà al potere.
Mi piacerebbe essere più collaborativa e poter dire che presto tutto andrà bene, ma non posso. Non ho la fortuna di poterlo fare quando persone che conosco da vicino vengono uccise e altre fanno lo sciopero della fame nelle prigioni militari, proprio mentre si tengono le elezioni. E non sto parlando di tutti gli altri incidenti capitati nel corso dell’ultimo anno e mezzo – parto proprio dal maggio 2012.
I risultati delle elezioni hanno creato parecchio scalpore, e la situazione sembra piuttosto complessa agli occhi di chi non ha familiarità con il contesto egiziano. Ho paura che i titoli di Cnn e Bbc che decantano le prime elezioni libere in cinquemila anni di storia, così come le dichiarazioni di John Kerry e Jimmy Carter, non bastino a spiegare l’insieme. Se proviamo a considerare invece una serie di altri fattori (il quaranta per cento della popolazione egiziana vive sotto la soglia della povertà, metà della popolazione è ancora analfabeta e l’unica fonte di informazione ed educazione per la maggioranza sono i canali televisivi controllati dai militari e dall’intelligence del regime Mubarak) si può capire come è possibile che i voti siano andati a Shafiq, l’ex primo ministro di Mubarak nonchè ex ministro dell’aviazione per dieci anni.
Mentre il mondo stava a guardare le file di egiziani alle urne per la loro “prima elezione libera da secoli a questa parte”, almeno come diffuso dalla giunta statunitense alleata, guardavo i canadesi a Montreal e gli americani a Chicago che protestavano nelle strade contro l’ingiustizia sociale, la guerra e per il diritto all’educazione che non gli viene garantito dai loro governi.
Semplicemente non voglio prendermi in giro, prendere parte a una stupida commedia o parlare dell’orgoglio di essere egiziani per essere andati al voto. Non ho mai votato neanche una volta in tutta la mia vita mia e lo stesso ambiente malsano che me l’ha impedito non è ancora cambiato.
I Fratelli Musulmani sono arrivati primi in parlamento e al primo turno delle elezioni perché sono l’entità politica meglio organizzata e se la passano piuttosto bene anche finanziariamente, quindi questo risultato non mi ha affatto sorpreso. Non sono un’occidentale islamofobica, quindi la ragione per cui non apprezzo le politiche dei Fratelli Musulmani non è il loro radicalismo o perché credo che islamizzeranno l’Egitto e così via, come dicono i giornali. È solo perché non mantengono la parola data, e hanno collaborato con il Consiglio delle forze armate ogni volta che gli è convenuto.
Ironicamente, non mi piacciono soprattutto perché il governo statunitense e i sistemi economici connessi preferirebbero di gran lunga interagire con loro, nonostante dichiarino davanti ai loro elettori di essere contrari agli islamisti. Quando Kerry è venuto in Egitto durante il massacro di Abbaseya ha incontrato un solo candidato. Era Morsy, il candidato dei Fratelli Musulmani. Perché? Chiedetelo a lui e alla Casa Bianca. Mi sembra chiaro, da prima che Mubarak si ritirasse, che agli Stati Uniti sta bene la versione dell’Islam politico che perseguono i Fratelli Musulmani: perché ai Fratelli Musulmani sta bene l’economia neoliberista che gli Stati Uniti ci hanno imposto.
Cosa succederà ora non lo so, e cerco di non pensarci perché non smettono mai di sorprendermi. Quando la rivolta iniziò avevo molte aspettative su aspirazioni e sogni astratti che potevano diventare realtà: libertà, uguaglianza sociale, dignità, miglioramenti nella ricerca scientifica e nell’educazione, ecc. Ero una ventenne ingenua, non sapevo quanto fosse maledettamente complicato tutto questo, e non sapevo che queste richieste sono comuni anche al resto del mondo sviluppato dove in tutta risposta la gente viene caricata dalla polizia per strada.
Dopo aver realizzato le dimensioni della crisi in cui ci troviamo ho ridimensionato le mie aspettative, ma posso dire che vorrei che a governarci ci fosse un’entità civile e non mucchio di generali messi assieme da potenti governi esteri. Vorrei solo potere esprimere le mie opinioni senza dover temere di essere arrestata o processata in tribunali militari. Vorrei poter protestare in strada se non mi sta bene qualcosa, senza temere di essere sparata da un soldato, investita da un carrarmato o attaccata da un criminale pagato dal regime. Vorrei non dover più essere preoccupata per i miei amici dimenticati nelle prigioni militari per accuse ridicole. Non dovrebbe essere così complicato, no? Ho paura che le cose non cambieranno attraverso nessuna elezione, ma al momento non ho risposte o soluzioni alternative. (desert dweller – inalllanguages.blogspot.it – traduzione e adattamento viola sarnelli)