È in edicola il numero di novembre (n. 198) del mensile Una città. Riportiamo di seguito, dal numero in questione, un’intervista di Barbara Bertoncin a Riccardo Orioles, giornalista fondatore de I siciliani, e oggi direttore de I siciliani giovani.
Riccardo Orioles, nato a Milazzo, assieme a Pippo Fava ha fondato nel 1982 il mensile I siciliani, edito a Catania, che ha avuto il merito di denunciare le attività illecite di Cosa Nostra in Sicilia. È stato inoltre tra i fondatori del settimanale Avvenimenti e caporedattore dello stesso fino al 1994. Dal 1999, svolge la sua attività giornalistica scrivendo e diffondendo l’e-zine gratuita La Catena di San Libero. Dal maggio 2006 al 2008 dirige Casablanca. Segue il magazine online ‘U cuntu. Nel dicembre del 2011 è nata la nuova versione digitale de I Siciliani giovani (www.isiciliani.it), di cui Orioles è direttore responsabile. Dal mese di ottobre, il giornale viene diffuso anche in forma cartacea. L’intervista è stata realizzata da Barbara Bertoncin.
Hai partecipato alla nascita de “I Siciliani” di Pippo Fava. Puoi raccontare?
Tutto è cominciato alla fine degli anni Settanta. Un giorno mi sono guardato allo specchio e mi sono spaventato: erano passati oltre dieci anni dal ’68, ero “grande”, avevo ventisei-ventisette anni e non avevo né arte né parte. A quel punto ho deciso di mettere la testa a posto, di trovarmi un lavoro serio, tranquillo e di chiudere, diciamo, questa fase giovanile. Pertanto ho fatto un concorso dell’ordine dei giornalisti e l’ho vinto.
Dovevo scegliere il giornale a cui andare e ho scelto l’Ora di Palermo, che era il giornale tradizionale della sinistra. Un giorno, avendo un’oretta libera, mi sono messo a leggere La passione di Michele, di Giuseppe Fava. Il fatto di non conoscerlo, di non averlo mai sentito nominare, mi aveva molto irritato. La sera dopo ho incontrato un amico che mi ha preso in giro perché mi volevo mettere a fare il giornalista e che però mi ha chiesto: «Hai provato a Catania?». «Perché?». «C’è Fava che sta aprendo un giornale nuovo…». Così sono andato a Catania, da Pippo Fava, e mi sono messo a fare il giornalista. Io volevo fare gli esteri, perché mi ritenevo molto bravo, e lui: «No, cronaca nera». Tra l’altro pensavo anche di avere le idee molto chiare su come si fa la cronaca nera. In realtà, non era proprio così… Per dire, se c’era una rapina nella bisca clandestina (che però si chiamava “circolo culturale Europa”), il giorno dopo qualunque traccia di quella rapina era sparita dai brogliacci della questura. Se arrestavano un mafioso a Torino con una tonnellata e mezzo di droga nel camion, il funzionario della narcotici a Catania non ne sapeva niente… cose così.
Per cui noi sparavamo sulla croce rossa. Eravamo anche molto ignoranti, nel senso che molte cose non le vedevamo, però era facile capire che c’era la mafia a Catania. Allora abbiamo iniziato a scrivere queste cose qui. Quello che doveva essere un mestiere tranquillo è diventato un mestiere molto divertente, però tranquillo non molto. Pippo Fava era un giornalista vecchissimo dal punto di vista del mestiere, cioè era uno degli anni Cinquanta per cui la regola aurea era che tu non potevi dire assolutamente niente se non eri stato sul posto e non l’avevi verificato. In realtà i giornali non si facevano più così da molto tempo, però noi non lo sapevamo. Io ero assolutamente convinto che il giornalista fosse “Humphrey Bogart più controllare tre volte le fonti”.
Da questo punto di vista per noi era facile; davamo delle imbucature ogni giorno al nostro avversario, “La Sicilia”; a parte quelli che erano ammanicati, i colleghi erano anche brava gente, ma non ne avevano più voglia. Noi addirittura avevamo le radio truccate, per cui spesso arrivavamo sull’omicidio prima della polizia, perché intercettavamo le volanti. Eravamo ferocissimi… Una volta Claudio e io intercettammo un carro funebre su una strada di campagna. «Che ci fa un carro funebre su una strada di campagna?», «Seguiamolo!». Cose di questo tipo. Alcune divertenti, ma alcune veramente orribili. Per esempio, il morto ammazzato all’epoca si distingueva in “morto col morto” e “morto senza morto”, quando il morto se l’erano portato via. Alle sette di mattina, «Pronto, Riccardo, c’è un morto». «Che morto?», «Un morto col morto». «Ah, allora vengo!», e mi fiondavo sulla vecchia Citroen.
In quegli anni, scoprimmo anche il livello alto dei mafiosi. Voglio dire, il colonnello dei carabinieri andava a cena con Santapaola. Il capo della squadra mobile ricattava dei carabinieri per via di una ragazzina, non parliamo di alcuni giudici… Ogni mese partiva un camioncino carico di salumi e formaggi per la casa di un giudice da parte del clan Ferlito. Questo avveniva alla luce del sole. Tu avevi questa grande piazza quadrata, che è il centro di Catania, con, su un lato, le bische clandestine, su un altro il palazzo di giustizia, poi i carabinieri e in fondo l’albergo dove ogni venerdì facevano la riunione per stabilire il prezzo della droga e infine, al centro, sotto il monumento ai Malavoglia, i ragazzini tossicodipendenti che si prostituivano. Un ragazzino costava tra le cinque e le diecimila lire, non di più, se era tossicodipendente.
Nel 1980, mi pare, ammazzarono sessantatré persone a Catania, delle quali un paio erano mafiosi, ma la maggior parte erano ragazzini, piccoli delinquenti. Ricordo che una sera tardi andammo in questa birreria, una delle poche aperte, che evidentemente era protetta – rimanevano aperte solo le birrerie dei mafiosi, se ti azzardavi ad aprire un locale saltavi per aria – in cui c’eravamo noi e il metronotte. E questi ragazzini tutti contenti che davanti agli spaghetti e alle birre si dividevano le catenine. Ecco, due giorni dopo trovarono la testa di uno di questi ragazzini sotto la statua di Garibaldi. Il corpo lo ritrovarono due giorni dopo in campagna. Aveva fatto una rapina sbagliata.
Non è vero che la mafia è disordine, la mafia è ordine perfetto. Se tu eri bravo, avevi la possibilità di far carriera nella vita, se chiedevi il permesso e poi facevi una bella rapina, chi lo sa, poteva essere che dopo qualche mese ti chiamassero per partecipare a qualcosa, in modo che tu, a poco a poco – se non ti sparavano – facevi strada. Ecco, all’epoca conoscevo tutti questi ragazzini catanesi. La mia macchina non aveva serrature… una volta mi rubarono le sigarette, le Gitano. Me ne lamentai con loro e due giorni dopo trovai due pacchetti di Gitano nel sedile della macchina. Per dire…
Noi all’epoca facevamo questo quotidiano, il “Giornale del Sud”, voluto da un gruppo di imprenditori – uno era padrone di una delle prime televisioni e forse si era un po’ montato la testa – … Questi poveracci si erano spaventati immediatamente, per cui la cosa tipica era che io andavo, facevo la notizia, mi facevano casini, lo dicevo al direttore, il direttore scendeva lì proprio intimidendoli. A volte però il direttore era a Roma e quindi la cosa non passava. E questo successe una volta con un mafioso molto grosso che era parente di un politico catanese, cugino… Il vicedirettore mi censurò la notizia e i tipografi però la sgamarono e di nascosto mi portarono la strisciata originale. Il giorno dopo, quando andai dal direttore con la strisciata originale, scoppiò l’ira di Dio e Pippo venne licenziato. Ufficialmente venne licenziato con la motivazione che i suoi articoli avevano, tra virgolette, minacciato l’Alleanza Atlantica. Per protesta occupammo il giornale per una ventina di giorni, dopodiché arrivò il sindacato e ci spiegò che non si occupano i giornali.
Per un anno cercammo di fare qualche attività commerciale. Riuscimmo anche a farci dare l’intera serie pubblicitaria di una catena di locali. Ricordo che brindammo, però a fine anno, al momento di fare i conti, ci accorgemmo che ci avevamo rimesso bestialmente. Questi ci avevano dato la commessa tanto facilmente perché noi eravamo gli unici scemi che la facevano per quattro soldi. Oppure avevamo fatto un settimanale… era il primo in cui si parlava di mafia catanese. L’unico problema è che era in inglese. Si chiamava “Walkie Talkie” e veniva diffuso all’Università per stranieri di Perugia, alla base americana di Sigonella e in pochi altri posti simili. Eravamo convinti di avere scoperto un grande target e ci mettemmo a fare un tabloid carinissimo in cui si parlava di Cosa Nostra, di mafia, dei killer Santapaola, dei “cavalieri”, queste cose qui. Poi la cosa finì perché gli americani, a un certo punto, licenziarono quelli che portavano il giornale dentro la base.
Finalmente, nel novembre dell’82 si decise di fare il giornale. Lo decise il direttore. È stata l’unica cosa autoritaria che abbia mai fatto. Siccome si tirava in lungo, un giorno, nella riunione di redazione, ci disse: «Ragazzi, sentite, la settimana prossima tu Riccardo vai a Palermo e tu Antonio inizi a lavorare… Usciamo a dicembre». Claudio, che era il più ragionevole di tutti, fece qualche obiezione, ma noi, appena sentita la parola “giornale” non c’avevamo visto più. La settimana dopo io ero a Palermo dove c’erano Falcone, Agata Consoli, Signorino, che erano allora il primissimo nucleo del pool antimafia. E c’era anche Chinnici, ovviamente. Così abbiamo fondato il giornale di cui tante volte avevamo parlato al bar: “I siciliani”. Noi in realtà avevamo trovato titoli molto più belli e molto più giovani, tipo “Il Domani”, “L’Avvenire” però poi risultarono tutti già occupati e allora alla fine abbiamo pensato a quel nome, perché i siciliani siamo noi, non gli altri, non so bene come dire. Era un bellissimo giornale. Non so a cosa corrisponderebbe ora, era un brossurato di duecento pagine. E si vendeva molto bene, però non avevamo una lira di pubblicità.
In realtà se sfogli la collezione trovi la Fiat, la birra Peroni… ma ero io che fotografavo le pubblicità dagli altri giornali e le mettevo lì nella speranza di convincere qualche inserzionista. L’unica pubblicità vera era quella di un vecchio amico del direttore che aveva un ristorantino. Comunque “I Siciliani” ha avuto un successo terrificante. Ci sono state due ristampe del primo numero, evidentemente avevamo toccato delle corde… Come redazione, oltre al direttore, c’eravamo io, Claudio, Michi, Antonio, Rosario e poi Giovanna Quasimodo ed Elena Brancati, che erano le nipoti di Quasimodo e di Brancati. Questo era il gruppo. Poi c’era Nanni Maione, quella che doveva cercare la pubblicità, l’impaginatore, Turi il fotografo, “Merola” il tipografo; c’era anche Lillo Venezia che era stato direttore del “Male”… poi c’erano un paio di ragazzi che se ne andarono dopo la morte del direttore. (leggi l’intervista completa su unacittà).