La scritta appare all’improvviso. Non mi stupisce che sia in italiano perché mi è familiare. Mi sento complice del messaggio, solidale con chi ha deciso di imprimere sul muro di una delle banche più centrali della città la rabbia, il disgusto e la voglia di andare avanti. “ALEX È VIVO! ACAB”. Non è la prima manifestazione a cui prendo parte da quando sono ad Atene; da circa due mesi mi sono trasferita in questa città e la possibilità di manifestare in mezzo a centinaia di persone accade spesso, ma in modo totalmente differente da come riportano i quotidiani e i telegiornali italiani.
Qui non c’è musica e gente che balla per strada, qui non si sta mai zitti perché i cori e le grida sono il mezzo di espressione di una rabbia accumulata giorno per giorno, qui non si ha il tempo di restare fermi a guardare perché arriva sempre il momento di correre: per andare contro o per andare oltre, lasciandosi alle spalle polizia, lacrimogeni e molotov. Oggi è il 6 dicembre 2012. Quattro anni fa, Alexandros Grigoropoulos, uno studente di quindici anni, venne ucciso a Exarchia, quartiere di Atene, a causa di un colpo di pistola sparato da un poliziotto ora all’ergastolo. Una condanna controversa il cui esito non era di certo scontato.
Le prime dichiarazioni della polizia attribuirono l’accaduto a questioni di ordine pubblico: un tentativo come un altro di fermare una situazione di guerriglia urbana causata da violenti anarchici. Fortunatamente un video reso pubblico il giorno seguente dimostrò che lo sparo era stato del tutto intenzionale e senza un motivo reale. Nelle tre settimane successive all’omicidio disordini, scontri, incendi, occupazioni di edifici pubblici e università investirono molte città della Grecia: Atene, Salonicco, Patrasso, Larissa. Brutalità e repressione non si fecero attendere, ma la violenza della polizia è così palese e insensata che nel 2008 il dipartimento greco di Amnesty International ha annullato le celebrazioni in programma il 10 dicembre per il sessantesimo anniversario dell’adozione della Dichiarazione universale dei diritti umani. Una risposta istituzionale insignificante per molti ma significativa per altri. L’uccisione di Alexis come l’ennesima prova della violenza della polizia e di un potere che cerca di governare con la forza e l’annientamento tutti i nemici che gli si pongono davanti.
Ad Atene, come in altre città della Grecia, la commemorazione di Alexis è d’obbligo: manifestazione studentesca, manifestazione dell’estrema sinistra, manifestazione anarchica. Classificazioni generali e non del tutto rappresentative, utili per capire chi prende parte all’evento ma non sufficienti a restituire le singolarità multiple che riempiono oggi le strade di questa metropoli. Anno dopo anno compagni, amici, familiari, cittadini, studenti, lavoratori, migranti e stranieri scendono in strada per esprimere il loro disgusto. E anche quest’anno la guerriglia non si fa attendere. Dopo un paio d’ore trascorse a passeggiare tra le vie del centro, una parte delle persone presenti decide di spostarsi oltrepassando il limite imposto dalle forze dell’ordine. In meno di mezz’ora cassonetti incendiati, muri spaccati per ottenere pietre da tirare, gente che corre, lacrimogeni, gruppi di ragazzi all’attacco dei poliziotti. Momenti di calma e di panico si rincorrono.
Sparsi per tutto il quartiere Exarchia si creano differenti luoghi e momenti di scontro. Focolai. Se chiudo gli occhi è proprio il fuoco l’elemento che ricordo meglio. L’odore della spazzatura in fiamme mi ricorda Nairobi e la frontiera con il Marocco. Penso all’Africa ad Atene. Mi avvicino e mi allontano cercando di mantenere la cosiddetta distanza di sicurezza. Guardo senza sosta tutto quello che accade attorno a me respirando a pieni polmoni l’odore della plastica che brucia. Le vie del quartiere sono strette, ripide, ingarbugliate; difficile avere dei punti di riferimento e impossibile capire se alla fine della salita ci sarà un gruppo di poliziotti pronti ad attaccarmi o di persone armate di molotov pronte a difendermi. A Exarchia oggi, per la prima volta, condivido il momento dell’attacco, quel sottile desiderio di ribellione che si insinua in un corpo incatenato. Un corpo vivo che si muove oltre i limiti imposti e contento di potersi esprimere anche attraverso azioni considerate illegali.
Nonostante tutto, per me, oggi è difficile capire cosa fare: fino a che punto spingersi, a che momenti prendere parte, dove andare e con chi. Bilanciare il desiderio di partecipare con quello di guardare che succede, l’istinto con la razionalità, il coraggio con la paura. Soprattutto perché basta spostarsi di qualche via per poter far finta che non stia accadendo nulla: anche il 6 dicembre a Exarchia è possibile bere un bicchiere di vino stando comodamente seduti ai tavolini di un bar. Gli spari restano alle spalle, a tratti arriva un po’ di fumo a causa dei lacrimogeni, dei poliziotti passano trotterellando e giovani ateniesi si siedono per respirare un po’ d’aria fresca e bere un bicchiere d’acqua. Mi interrogo sul significato degli scontri appena vissuti, su quanto siano intensi e invisibili, reali e simbolici, necessari e insignificanti. Sono seduta al tavolo, incapace di trovare una risposta alle domande che affollano la mente. Allontanandomi dal fuoco le domande prendono il sopravvento. Devo stare ancora nel mezzo? Ma fino quando? Sbaglio a desiderare questa pausa? Devo tornare indietro e continuare? Qual è il senso di questa violenza? Come evitare la criminalizzazione di questi attimi di libertà in modo da poterne trasmettere il significato? (rita maralla – betty-books.com)