Il terreno è bagnato, scivoloso. Bisogna stare attenti se si vuol scalare la collinetta che fa da naturale muro di cinta al parco, ma i bambini vi si arrampicano lo stesso per raggiungere l’albero. Un enorme abete che ha messo radici in una sola notte. L’ha donato il comune, il sindaco ne ha appena inaugurato l’accensione delle lucine, i ragazzini delle scuole l’hanno addobbato di lettere con le loro richieste per Natale. È un po’ la metafora di Scampia: una manciata di preghiere che non fa miracoli.
«Sindaco, ho paura», si avvicina a de Magistris camminando con il bastone, accompagnata da una parente a cui si aggrappa ogni volta che c’è un dislivello del suolo. È balbuziente per via di un ictus, parla dandosi delle pause, ma nessuno la interrompe. «Ho paura che mi buttano fuori, e non ho dove andare. Io ci tengo alla pulizia, per questo mi aggiusto casa come meglio posso. Non lasciateci soli, ci sono anche i bambini. Non siamo tutti camorristi».
La donna ha occupato l’appartamento vuoto di una delle quattro vele rimaste in piedi. Teme lo sgombero, quello coatto, improvviso, da un posto divenuto invivibile, ma che lei considera casa. Nelle vele, fatte di pareti umide e amianto, adesso a cedere sono i ballatoi. L’ultimo crollo ha reso inaccessibile il passaggio a un giovane disabile in carrozzella che, per questo motivo, non può più affacciarsi dal piano ammezzato, nemmeno per vedere i ragazzini giocare a calcio nel campetto di fronte. Era un modo per sentirsi uno di loro, per riempire le giornate.
Di recente, a crollare nella vela gialla sono stati anche i gradini di una delle scalette in ferro, ormai arrugginite e pericolanti, che portano negli appartamenti in quell’intrecciato sistema che fa dell’architettura interna, secondo i costruttori imitazione del vicolo napoletano, un labirinto senza luce. Una tettoia in lamiera, messa previdentemente da un inquilino, ha attutito il colpo ed evitato il peggio. Un tonfo che non ha avuto eco «perché nessuno si è fatto male, mentre a Scampia si corre solo per il morto», come raccontano dal Comitato vele.
Comincia a piovigginare, la cerimonia è terminata, i bambini vengono disciplinati in file. La donna si commuove, non riesce più a parlare. Adesso la pausa non è sua. Il disagio di chi ascolta si rannicchia in un silenzio senza apparenti battaglie. Dura qualche attimo. «Nel buttar giù le vele – rassicura il sindaco – ci faremo carico delle persone che stanno dentro e che non possono essere gettate in mezzo a una strada, ma dobbiamo rientrare nei canoni della legalità. E dobbiamo trovare imprenditori privati che ci aiutino ad abbattere e ricostruire. Il comune da solo non ce la fa, non facciamoci illusioni». La donna consegna l’ultimo appello a due parole mal pronunciate: «Aiutateci, noi non ce la facciamo più». Poi si azzittisce, e china il capo alla ricerca di terreno stabile dove mettere i piedi per non cadere.
Dietro di lei compare una delegazione dei disoccupati Bros: chiedono al sindaco un incontro in prefettura, un tavolo di confronto tra comune e regione. «Le forze stanno saltando», dice il loro portavoce. Timori, desideri, proposte. Come quelle delle letterine dei bambini che, nero su bianco, hanno chiesto un quartiere senza più uccisioni, con strade e scuole pulite, campi di calcio. Ma chi l’ha detto che il Natale è la festa solo dei piccoli? È il reclinare il capo sulla spalla che ti accoglie. In una ruvida amnesia che non è dimenticanza, ma azzardo di debolezza nell’assedio di cicatrici.
La folla si disperde. Si aprono uno a uno gli ombrelli, mentre i blindati della polizia lasciano il campo. «Sembra l’albero della rivoluzione francese» sussurra padre Domenico in un rigurgito di storia che nessuno intorno comprende, guardando l’abete che hanno già soprannominato “della legalità”. «La legalità non è un atto simbolico», spiega pacatamente il gesuita. «Significa mettere in condizione i cittadini di rispettarle queste regole. Come? Garantendo i diritti primari come casa, lavoro, istruzione e sanità. Non si nasce delinquenti. Ma questo è un discorso lungo e complicato». Serra le spalle nel cappotto di lana blu e si allontana lungo viale della Resistenza, mentre la pioggia scolorisce le letterine appese all’albero, rimasto intanto solo, ai limiti della villa. È un po’ la metafora di Scampia: un eterno avvento che si fa grembo ubbidiente ad accogliere il cielo che viene giù. (claudia procentese)