1.
Conosco Romano mentre è seduto al bancone del bar. Sorseggia del thé in silenzio. Ordino un bicchiere di vino rosso in greco e poi mi rivolgo a Michela: «Tu bianco, no?». All’improvviso lui si volta. «Italiana?». Anche lui nasce a Milano, molto prima di me. Emigra quasi subito ma non abbastanza presto da non imparare la lingua. Si trasferisce con la famiglia nella Svizzera tedesca. Poi inizia il viaggio. Un continuo spostarsi da una nazione all’altra attraversando confini e frontiere, ricercando incontri e occasioni. Per fermarsi e per ripartire. In Grecia da sei mesi, non parla una parola di greco. «Perchè le persone capiscono subito che sono straniero, e così preferisco utilizzare l’inglese». Conosce anche il francese, il russo, il tedesco e un altro paio di lingue conosciute da una minoranza. Sceglie la Grecia per differenti motivi, credo anche casuali. Curiosità sicuramente. Gusto nel vivere in una nazione mediaticamente sotto i riflettori. Arriva a Patrasso e dopo un paio di mesi a Samotraki (isola selvaggia a Nord est del paese storicamente interessata da riti magici e propiziatori) si sposta a Tessaloniki, seconda città del paese per numero di abitanti. Si muove a seconda dell’ospitalità che riesce a ricevere. In caso contrario la spiaggia, una panchina, un parco, una stazione o un treno gli fanno da riparo notturno. Arriva infine ad Atene. A breve dice che rientrerà in Svizzera perchè deve compilare dei documenti per ricevere la pensione. Deduco così che ha circa sessantacinque anni. Io gliene avrei dati di meno, Michela di più. Romano non è il classico “barbone” (giusto per rendere comprensibile l’immaginario a cui mi riferisco). Non è certamente un uomo distinto e non ha l’aria da professore, ma quando parla gli credo: questo fa la differenza.
Mi è capitato più volte di imbattermi, in Grecia come in Italia o in altre parti del mondo, in personaggi improbabili, con una storia avventurosa ma incapaci di trasmettermi, dal primo momento fino all’ultimo, fiducia totale rispetto a quello che mi andavano contando. Con lui è diverso. E oltre a raccontarmi delle prime esperienze da giornalista free lance e dell’ottima paga che riceveva un tempo, mi fa un sacco di domande: per capire cosa penso più che per scoprire cosa faccio. E quando canto con lui i versi finali della canzone di De Andrè (“bisogna farne altrettanta, per non riuscire più a capire, che non ci sono poteri buoni…”) si emoziona. Si emoziona davvero. Scuote la testa sorridendo a denti stretti e mi stringe le spalle con entrambe le mani. Solo questa frase, il resto della canzone rimane superfluo. Ci siamo capiti. Ha un progetto in mente e credo che sia ormai un’ossessione, qualcosa che si porta dentro e che non riesce a realizzare; un’idea generale sul mondo e sui possibili modi per salvarlo da catastrofi ambientali e rapporti interpersonali in via di dissoluzione, da consumi superflui e militarizzazione progressiva. «Non te ne parlo perchè ci vorrebbe troppo tempo». Accetto l’intenzione ma periodicamente cita questo enorme progetto da cui un tempo forse sono dipese molte scelte avvenute nel corso della sua vita. Ne parla come di qualcosa di realizzabile e impossibile allo stesso tempo, concreto e assolutamente ideale, rinchiuso nella sua mente a tratti confusa e distratta dalla bellezza del viaggio e da quello che la vita, a volte involontariamente, ci presenta davanti. Gli compro una stampa di un disegno dai tratti infantili che rappresenta lo sfruttamento occidentale dell’Africa. Un euro. Non mi chiede di più, perchè «è sufficiente per comprare le sigarette di contrabbando qui fuori».
2
Rientrando verso casa con Maria, una bella danzatrice andalusa che vive a Prespa, piccolissimo villaggio di montagna a Nord ovest della Grecia che condivide con l’Albania un lago e dei monti, ci imbattiamo in un fuoco improvvisato al limite della piazza principale di Exarchia. Le chiedo se si vuole fermare, anche se già conosco la risposta. Non è tardissimo, saranno più o meno le tre: il quartiere non è ancora totalmente silenzioso, in molti stanno raggiungendo letti e sogni rassicuranti, le cameriere spazzano per terra e lanciano secchi di acqua sporca appena fuori dai locali, i tassisti aspettano sonnolenti che qualcuno gli bussi al finestrino. Il fuoco è alimentato da pezzi di legno raccattati qua è là.
Tre africani, un giovane ragazzo bengalese che ha poco più di vent’anni, un altro che preferisce restare seduto in silenzio, un uomo che se ne va appena io e Maria “chiediamo il permesso” di entrare a far parte del cerchio, un albanese di mezza età che si unisce a noi successivamente. Il suo arrivo si trasforma in un momento di gioia: ha con sé un bancale nuovo trovato nel parcheggio di un supermercato. Il ragazzo africano che parla poco e che indossa scarpe eleganti fuori moda inizia a rompere il bancale sistematicamente: pezzo dopo pezzo, senza fretta. Non che sia difficile spaccare un bancale, ma il modo in cui lui lo affronta mi colpisce veramente. È in generale tutta la sua figura che non mi lascia indifferente anche se non ci guardiamo mai negli occhi: saranno i vestiti che indossa, i tipici abiti africani provenienti dalla moda italiana anni Sessanta composta da giacca, pantaloni da uomo scuri e scarpe di cuoio. Pazientemente ordina su due pile i pezzi di legno divisi a metà. Eppure quando il signore albanese vuole mettere altra legna ad ardere non è lui che interviene dicendogli di no, ma il ragazzo senegalese.
Nonostante la nostra presenza rechi interesse e susciti domande, attorno a questo fuoco si parla molto poco. Brevi discorsi sufficienti per capire in linea generale chi si ha davanti e poi stop. Le fiamme e il calore incantano chiunque. A tratti il signore albanese si ricorda di passate parole italiane imparate un tempo in Italia; per il resto continua a rivolgersi a noi in greco anche se è evidente che non capiamo tutto. Mi interrogo su quali siano i motivi del nostro essere qui ora: freddo, desiderio di non rientrare a casa, impossibilità di rientrarvi perchè una casa non la si possiede, attesa del sole del mattino, inconscio piacere di trovarsi circondati da persone che non si conoscono, puro amore per il fuoco. Nessuno beve la birra che io e Maria offriamo e nessuno di loro fuma le canne che l’amico del giovane ragazzo bengalese ci offre. «Non potete rifiutare perchè un’erba così non la troverete più qui ad Atene: good trip without red eyes. No problems with police!». Rientriamo a casa attraversando Kolonaky, uno dei quartieri storicamente più ricchi di Atene, a metà tra piazza Syntagma e le ambasciate. Un angolo di strada mi ricorda sempre il centro di Londra. Il fuoco è ormai lontano ma io non ho più freddo.
3
Il bar l’avevo visto una settimana prima. Ero alla ricerca di una pompa per la bicicletta e avendola trovata molto prima di quanto pensassi decido di camminare un po’ godendomi le ultime luci della giornata. Attraverso così via Ermou iniziando a esplorare le strette vie che compongono Psyrri. Colpita dalla quantità di negozi ed edifici chiusi, rallento il passo davanti alle saracinesche abbassate provando a immaginare la destinazione d’uso passata. Ogni tanto è ancora possibile guardare oltre le vetrine impolverate. È come se qui il ritmo della città fosse un ricordo lontano: nella maggior parte delle vie tutto è immobile, in silenzio, addormentato, in attesa. Incontro un negozio di alimentari aperto e resto colpita dalle due figure sedute fuori: uno dorme al caldo di coperte di lana mentre l’altro setaccia qualcosa che non mi è chiaro. Indossa una specie di tunica color panna in stile arabo, ha la barba lunga e un turbante.
Insegne rotte, graffiti, scritte imponenti. Tutto a un tratto una piazzetta molto carina e vivace. La stazione della metro. La coscienza che in fondo non ero poi così persa e la decisione immediata di ributtarmi nelle stradine silenziose lasciandomi alle spalle la geografia della città. Ritorno davanti al negozio di alimentari, scopro un negozio di antiquariato che ha una bellissima televisione rossa oltre che una proprietaria dal sorriso invitante, passo davanti a parcheggi vuoti. Imbocco una via laterale fiancheggiata da un parchetto e improvvisamente una musica precede i miei passi: chitarra, voce e bouzouki. La porta del bar è aperta e un paio di persone sono sedute ai tavolini di metallo esterni; sosto appena il tempo per constatarne le piccolissime dimensioni e la composizione umana. Una donna soltanto, uomini di mezza età, un ragazzo giovane con i lunghi capelli biondo cenere, un altro con i rasta di una vita. Me lo lascio alle spalle memorizzando il nome della via. Sulla mia mappa non lo trovo e dimentico presto il nome. Sicura che lo ritroverò, riprendo il cammino dirigendomi verso il quartiere cinese-pakistano alla ricerca di legumi e spezie sconosciute.
Passano i giorni, un’amica viene a farci visita e così approfitto della sua presenza per ritornare a Psyrri. Voglio mostrarle le vie deserte e i muri parlanti. Le parlo del bar e della possibilità di incontrarlo. A differenza della settimana scorsa oggi è sera. Le luci natalizie quasi del tutto assenti e i lampioni rotti rendono l’atmosfera ancora più interessante. Camminiamo parecchio senza meta e a un certo punto, proprio quando la gola è ormai troppo secca per poter continuare, incontriamo il bar. La porta è chiusa e il fumo così intenso da rendere deboli le luci del locale. Vetri appannati.
«Quieres entrar?»
«Claro, por una cervezita».
L’atmosfera appannata rende intensa la musica. Gli occhi che ci guardano e che ci accolgono. Non ci sentiamo a disagio neanche per un attimo nonostante la nostra estraneità all’interno di un contesto familiare. Il nostro parlare spagnolo non diventa un problema di comunicazione e non tanto perchè qualcuno lo parla, ma perchè inevitabilmente è il greco a farsi canale di comunicazione. Un greco rozzo, con poche coniugazioni e con il tempo presente anche quando si parla del passato. Un greco capace di raccontare chi siamo, perchè siamo qui, dove abitiamo e poco altro. Un greco che lascia spazio all’improvvisazione linguistica, al linguaggio del corpo, al silenzio.
Il ragazzo giovane dai capelli biondo cenere che l’altra volta stava seduto al tavolino fuori in compagnia del rasta oggi non smette di suonare: chitarra, bouzouki, violino e un altro strumento a corde di cui non ricordo il nome. Tre o quattro uomini si alternano strumenti e parole. Tutti sanno cantare e la musica avvolgente ti fa passare la voglia anche di andare in bagno. Il primo a parlarci è un signore anziano dai ricci capelli grigi nascosti in buona parte da un buffo cappello con la visiera blu. A seguire un signore che sa l’italiano per motivi di studio passati. Dopo di lui il proprietario del bar, un signore albanese sorridente e che sistematicamente ripone il bouzouki al suo posto ogni volta che non è utilizzato. Anche lui parla italiano: ha lavorato parecchio tempo in Italia e ora si trova ad Atene.
«È bello questo bar, si sta bene».
«Già, è per dimenticare i problemi del mondo esterno».
L’abbigliamento della maggior parte delle persone presenti trasmette la loro appartenenza a una classe popolare sicuramente in crisi ma ancora capace di godersi la vita. E più il tempo trascorre, più io e Maria ci facciamo vicine e disinvolte. E quando mi offrono il bouzouki non mi tiro indietro e inizio a strimpellare. Re – La – Re: sei corde per tre tonalità. Lascio il bouzouki al ragazzo biondo e passo alla chitarra: il signore che parla italiano mi dice le note che devo fare e per alcuni minuti siamo davvero in sintonia. Ci offrono altre due birre. Penso che sia sempre bello ricevere un altro giro quando lo si desidera. E come io ero inquieta perchè desideravo suonare, Maria vuole ballare. Si muove costantemente sulla sedia perchè non può più stare ferma. L’anziano signore dai capelli ricci lo capisce e la invita ad alzarsi. Ballano insieme per alcuni minuti ma poi lei prende il sopravvento e la sua figura riempie la stanza di azione. La musica incalzante, il volume più intenso, i sorrisi sinceri e senza malizia. Terminiamo le birre al suono del reggae: un uomo arrivato da poco prende la chitarra e canta Bob Marley regalandoci nuove sonorità che ci accompagnano fino a casa. (rita maralla)
By Enrico Giordano January 10, 2013 - 1:33 pm
Stabben!