da Napoli Monitor n. 51 / Novembre 2012
«Lo vedi a mamma, quelli lo fanno per devozione… Così la madonna li protegge quando stanno in mare». I marinai dalle spalle larghe escono dalla Chiesa. Il santuario della Madonna della Neve è gremito e la piazza antistante è affollata di gente con la pelle d’oca. I balconi sono addobbati con coperte e lenzuola, e gli abitanti aspettano con petali e coriandoli il passaggio del grosso quadro. Si aspetta tutto un anno questa data a Torre Annunziata: il 22 ottobre.
La gente che vive fuori dalla città, se può, torna a casa per la festa, l’amata Madonna accompagna il suo rito con le leccornie di ogni tipo vendute sulle strade, e l’aria di festa che si respira, porta la città in un tempo sospeso, indefinito. Come se fosse l’unico giorno dell’anno in cui avesse un senso stare lì.
Ai marinai tocca il compito di trasportare sulle spalle la Vergine saracena col bambino: «Pecchè chella se fa purtà sulo dai piscature… Altrimenti si fa pesante, e non si fa alzare!». Da quando la trovarono in mare nelle acque del golfo e fu contesa da Torre Annunziata e Castellammare. «Fra cinque minuti la Madonna prenderà possesso della città», dice la voce dal megafono dell’apparato ecclesiastico organizzatore. Un megafono che ripete continuamente l’importanza della preghiera in questa giornata, perché sa che quella è solo una parte della festa e forse neanche la più importante.
La Madonna fa un percorso definito che si ripete ogni anno. Il carro è grosso, e la figura scultorea della Vergine col bambino è chiusa in una teca di vetro. Il passaggio al porto è la benedizione a una delle poche attività rimaste ancora in piedi in questa città. Da qualche sera prima, sulla via del Corso, ci sono lucine accese montate su grosse strutture in legno ripetute in un ritmo regolare, per dare l’effetto scenografico delle luminarie in un fondo di colore giallo, bianco e blu. E poi i venditori ambulanti: pieni di caramelle colorate e nocciole caramellate, torroni e liquirizie. Tutti lì ad aspettare la Madonna, figura rassicurante della mamma col bambino. Si somigliano le Vergini, a parte il colore della pelle, tengono in un abbraccio il proprio figlio in una posizione troppo umana, coscienti della natura divina di quell’essere, che in questo mondo diventa indifeso e fragile. «Lo vedete ‘o piede squagliat’ d’o creaturo?…‘O Vesuvio ‘n tiempo ‘e guerra se steva piglianno ‘o cimitero. Allora ‘e piscature purtàjne a Madonna annanz a’ porta principale, e ‘a lava se fermaje…».
Ma quest’anno c’è nell’aria qualcosa di diverso. Torre Annunziata è un paese esausto, in vent’anni sono andati via più di ventimila abitanti. Il comune non ha i soldi per finanziare la parte ludica e giocosa della festa, a un certo punto si pensava addirittura che non si potesse più fare. Ma la gente ha protestato davanti al comune, perché può rinunciare a tutto, alla scuole e agli ospedali, ma non alla sua identità, la sua identificazione sacra. E così la festa si è fatta… senza i fuochi artificiali, senza la corsa dei cavalli sul porto, ma si è fatta. Tanto è che la quantità di persone sul corso Umberto era indescrivibile, quando è successo un evento inaspettato, alle dieci di sera: «‘PPAH!». Uno sparo ha mandato nel panico due chilometri di persone che passeggiavano per strada, tutti a scappare sotto i portoni e nei bar aperti. Donne che lasciando i passeggini per strada scappavano con in braccio i propri piccoli, e ragazzi tornati a casa con trentanove di febbre per la paura di morire.
La folla si è mossa come un’onda e il panico ha attraversato cinquantamila persone in pochi secondi. Forse una bravata o un avvertimento, ma la Madonna prende il sopravvento perché è di tutti, e tutti la possono usare. Disegnata a colori, sui petti, sulle schiene, e sulle braccia di chi non esita a spargere terrore. Dopo mezz’ora e con la strada semivuota, il sindaco fotografato la mattina sotto al carro della Vergine, invitava i cittadini a riprendere la festa.
San Giovanni e San Ciro, la Madonna di Pugliano, il Beato Vincenzo e la Madonna della Neve, la Madonna di Pompei. Santi e santuari sono stati elementi fondamentali nella costruzione delle varie comunità vesuviane, della loro appartenenza. Nel loro spicchio di potere, dal mare al cratere. Piccole e grandi suggestioni all’interno delle città, sono state fautrici di sviluppo economico e sociale, luoghi collettivi che hanno definito le varie identità. La devozione per un’immagine, il fascino di una storia è la costruzione dell’appartenenza, la trasposizione del ringraziamento verso il luogo che ci ospita. La devozione è qualcosa che non si misura, non ha peso, è una speranza, un sentimento che spazza via la ragione. È proprio lì che si differenziano le città vesuviane. La loro devozione, l’aura di potenza e il suo raggio di circonferenza sui paesi vicini. Processioni e pellegrinaggi verso i santuari: gli ultimi baluardi di un vivere antico nella nostra società, oggetti di rinato vigore. La crisi e la povertà rafforzano la devozione, specialmente quando rimane l’unica cosa a cui aggrapparsi, in un territorio dove scarseggia una politica sociale degna, e dove la speranza è l’unica soluzione : «Ah se prendiamo la quaterna! Ci pensi? Cinquecentomila euro, ah chella bella Maronna d’o Carmene…».
«Santa Vergine del Rosario di Pompei: prega per noi»… «Ti salutiamo vergineeee / colomba tutta puraaaa / nessuna creatuuuraaaa è bella come teeeee…», cantano i gruppi di persone che camminano verso il santuario di Pompei, tra la recita di un Santo Rosario e un Padre Nostro. Nella prima domenica di ottobre sono tanti, così come nel mese di maggio, il mese mariano, vengono da tutta la provincia, si muovono a piedi verso il santuario di Pompei. Un pellegrinaggio antico dentro il traffico e i clacson della via Regia delle Calabrie, la grande strada costruita dai romani per raggiungere il lato tirrenico del sud Italia, su cui si sono costruiti i centri storici delle città vesuviane. Città che hanno ormai perso la loro struttura e singolarità e che, indistinguibili da Napoli, si dilatano e si spalmano fino alla costiera sorrentina in una costituzione informe, tra i bordi del golfo e la criniera dei pini sopra al cono del Vesuvio.
I gruppi devoti fanno anche trenta chilometri a piedi, portano striscioni e figure della Vergine. Arrivano da Giugliano, Marano, Quarto, Afragola, Casoria. Ma anche Secondigliano, Barra e San Giovanni. Cantano inni nei megafoni, o pregano in silenzio c‘a curona ‘n mano. Il cammino è lungo e li puoi notare seduti sui muretti attorno a una piccola fontana o sui marciapiedi davanti al bar. Camminano per strada davanti alle macchine, anche dove i marciapiedi potrebbero contenerli, quasi per far riconoscere il valore del loro passaggio, portandosi indietro altre “madonne”: quelle uscite dalle bocche di chi li subisce. A volte sono senza scarpe, con solo dei calzini, non tanto perché la terra è sacra, ma perché i bollori ai piedi si fanno sentire. Questa prima domenica di ottobre la recita della Supplica a Pompei è più importante degli altri anni, perché coincide con il giorno 7, che sul calendario cattolico è dedicato alla Vergine del Rosario.
C’è in questo gesto del pellegrinaggio, del cammino verso la Madonna, un’unificazione emotiva. Sembra rimasto uno dei pochi atti civili di questo posto. La voglia di provare a ricongiungere e mettere insieme, a sentirsi parte di una comunità più grande, che in ogni gesto della vita contemporanea si va scalfendo, diventando sempre più irriconoscibile. L’ufficio della Chiesa cattolica che si occupa della parte spirituale della vita dell’uomo, interrompe e divide il rapporto nell’uomo tra il corpo e il suo spirito, come fossero separati, e utilizza a suo favore i gesti antichi come i pellegrinaggi, in cui l’uomo prova a ricomporre la propria unitarietà dentro questa antica forma di meditazione.
La piazza è affollatissima. Qualcuno occupa le sedie di plastica dalle sei di mattina aspettando la Supplica di mezzogiorno. “O Augusta Regina delle Vittorie, o Sovrana del Cielo e della Terra, al cui nome si rallegrano i cieli e tremano gli abissi, o Regina gloriosa del Rosario, noi devoti figli tuoi, raccolti nel tuo Tempio di Pompei, in questo giorno solenne effondiamo gli affetti del nostro cuore e con confidenza di figli ti esprimiamo le nostre miserie…”. La preghiera viene letta in contemporanea dalla piazza intera, e con la presenza della televisione, anche da mia madre in ginocchio davanti allo schermo. Il santuario di Pompei ha un richiamo provinciale se non addirittura regionale, per questo potremmo candidare la Vergine del Rosario a patrona della nuova città metropolitana. Forse può giocarsela con “faccia ngialluta”, il santo patrono di Napoli, riconsegnando valore alla figura della donna in questo “ventre della vacca” vesuviano.
Nei corridoi laterali del santuario di Pompei ci sono disegni e fotografie, frasi, dediche, tutti a quella presenza. Presenza madre. C’era un disegno a colori di un incidente d’auto e sotto poche parole: grazie Maria. Bimbi piccoli guariti da malattie e altri in attesa, speranzosi e credenti. Migliaia di foto una vicina all’altra… Si possono contare una a una quelle facce, quei cori, ognuno con una tragedia stampata in volto, quella della propria vita. Preghiere ad alta voce scandiscono il tempo, e l’unica cosa che non muore è la fede, incrostata negli anfratti della mente, dove il pensiero si rifiuta di entrare ma che l’appartenenza alla comunità rinforza. I Santi e le Madonne, il loro potere sulla gente. Dio è quasi scomparso. È il padre che non c’è mai. Ma quelle figure rassicurano, danno forma e profumo a pensieri strani. Cammino lentamente verso quella croce, alta sul campanile. Le immagini sbiadite che reggono le pareti delle chiese in una narrazione possibile, non univoca dei riti e delle loro storie, perché la maggior parte delle storie è degli uomini e delle donne. Attraverso la strada regia delle Calabrie, dal ponte della Maddalena.
Non è un caso che quasi tutti i santuari delle città vesuviane si affaccino su questa arteria principale, l’unica infrastruttura su questo territorio, prima dell’autostrada e delle ferrovie. Il primo santuario che incontro è quello di San Giovanni a Teduccio di fronte alla piazza e alla fermata della ferrovia dello Stato. A Portici il santuario dedicato a San Ciro è nella piazza che gli è stata creata attorno per esaltarne la presenza, visto che si trova in mezzo tra la zona delle ville vesuviane e la magnifica Reggia col Bosco. Ercolano non ha la cattedrale più importante sulla strada principale ma sulla piazza di Pugliano. Sembra anche qui per non andare in competizione con le ville vesuviane, ma la Madonna a Pugliano ha genesi molto più antiche. In piazza Santa Croce a Torre del Greco invece il campanile non svetta sulle case. Il Vesuvio l’ha sepolto mettendo strati di fuoco sopra la memoria, l’ha portato a livello della città per rivendicare la sua assoluta unicità. A Torre Annunziata sul corso principale non c’è la Madonna della Neve ma il santuario della Madonna del Carmine, antica costruzione la cui cupola svetta dal mare in seno al Vesuvio sopra ai tetti della città. La chiesa della Madonna della Neve è a lato del porto, dove si fa il mercato del pesce, appartenendo più al mare che alla terra. E infine Pompei. Catene umane d’intenti si muovono lentamente dentro paesaggi urbani. Con mani giunte e gambe pesanti attraversano la memoria dei luoghi passati. Cerimonie in movimento attorno al grande pachiderma di fuoco.
Le croci, il punto di arrivo, i campanili come fari per non arenarsi svettano sopra ai tetti delle case. Pompei è forse l’unica città in cui questo avviene. Succede in grande nei paesi vesuviani ciò che avveniva all’interno della città di Napoli tra le varie chiese: la competizione. Come quelle di San Paolo Maggiore e San Lorenzo. Poste sullo stesso incrocio tra San Gregorio Armeno e via Tribunali. Le chiese e la forma di potere del territorio, quando il potere temporale e spirituale non era ancora diviso. E sulle costruzioni religiose venivano apposti i simboli di rappresentanza delle famiglie nobili che ne permettevano la costruzione. E così i fedeli si dividevano in fazioni, tra i devoti della Madonna e i devoti del Santo: «San Gennaro o San Ciro, San Ciro o San Gennaro, San Gennaro o San Ciro… là ce sta pure a Madonna, dint’o scuro!», recitava Troisi. E quel che ora rimane è la mappa mistica dei santuari, uniti come i granelli di una corona del rosario, da un filo sottile, fatto di paure, speranze e preghiere, di un popolo che ha in quel ventre mistico la sua rappresentazione sacra, riconosciuta da generazioni, e senza nient’altro che la possa scalciare. Così tra i Santi e le Vergini le storie si moltiplicano. La comunità dei credenti si restringe, e quando una comunità si restringe si protegge chiudendosi sempre di più. La chiesa come meta dell’ultimo viaggio immaginato. Rappresenta in se l’oscuro attraversamento, e la speranza che alla fine trovi due braccia che ti attendono. (daniele balzano)