Le tv al plasma schierate lungo gli unici viali liberati dal traffico, illuminano i volti dei carioti della seconda serata. Le sedie prima disposte caoticamente attorno i tavoli colmi di tazze tazzine e zuccheriere si riversano di fronte allo showman più in voga d’Egitto e le risa lungo il viale coordinano il brusio disordinato di sempre. Bassim Yossef, volto da mimo, parlantina fluente; per intenderci, alla David Lettermann Show. Era inimmaginabile che si parlasse in modo così irriverente della classe dirigente al potere prima della rivoluzione del 25 gennaio.
Emed è un giovane avvocato, camminata goffa e idee ben chiare, di Alessandria, laureatosi pochi mesi prima dell’inizio della rivoluzione egiziana. Giusto in tempo per l’appunto. Il movimento politico di cui fa parte oggi ha un’assemblea. Siamo al Cairo, cinquecento metri da Midan Tahlat Harb, e altri tanti da Midan El Tahrir. I giorni delle folle oceaniche sono finiti e le tende rimaste testimoniano il resistere di quella condizione originaria che generò la protesta: povertà diffusa, brutalità delle forze di polizia e malcontento per la classe dirigente al potere (seppur rinnovata). Il Moghamma, il palazzo dove si brigano ogni sorta di pratiche burocratiche, che si affaccia maestoso su Midan Tahrir, ha riaperto i battenti e apparentemente la piazza sembra riprendere il ritmo di sempre.
Ma Tharir non è solo un luogo fisico, una piazza nel centro pulsante di una città che di giorno ospita più di trentasei milioni di anime, ma un esperimento di condivisione che stenta a farsi riconoscere per le sopraggiunte contraddizioni che il gioco elettorale ha sollevato come un polverone su di un teatro di attori in cerca di un autore. Chi votava per Shafiq, ministro nell’era Mubarak e diretto contendente di Morsi nella seconda tornata elettorale, ha votato “si” alla costituzione redatta in tutta solitudine da salafiti e Fratellanza; i rivoluzionari che votarono per Morsi invece maledicono quella scelta imposta e Tahrir – quella che è diventata la fucina dei rivoluzionari carioti e modello per altri movimenti di insubordinazione nel mondo – ora viene considerata il covo dei Feloull, i fedeli irriducibili del buon vecchio Mubarak, accusati di essere pagati per creare scompiglio. Tutto non è come prima e tutto è come sempre.
Dopo la caduta di Mubarak dell’11 febbraio 2011, i mille e quattrocento morti per la rivoluzione e la fallita iniziativa costituente dell’esercito, con entusiasmo cieco (parliamo delle prima elezione diretta di un presidente nella storia egiziana), al secondo turno l’Egitto ha sperato nel candidato meno colluso con il regime precedente: Mohammed Morsi.
Ehmed ritorna al tavolo ancora ridendo trascinandosi dietro la sedia e chiama the boy per farsi cambiare il carbone, ormai cenere della shisha. Tahrir nei giorni successivi l’11 febbraio 2011, giorno dell’annuncio del passaggio dei poteri alle forze armate, è stata il collettore per tutti quei giovani che per la prima volta iniziarono a interessarsi di politica. Il suo movimento, Al Tayyar al-Masri, nasce a maggio del 2011 in seguito alla fuoriuscita di Islam Lutfi dal movimento dei Fratelli Musulmani, e a suo modo rappresenta lo spirito caotico e originario di Tahrir, la comune esperienza di lotta e la stessa voglia di emergere, conservando intatte tutte le differenze interne alla composizione sociale dell’Egitto contemporaneo. Il suo ruolo all’interno del partito è di responsabile alle relazioni con gli altri schieramenti politici per la città di Alessandria e non nasconde che spesso, con quello spirito ironico che contraddistingue gli egiziani, gli venga detto di lasciare il suo partito, troppo piccolo per competere, e passare nelle fila di El-Doustur di El Baradei. Ehmed, come molti altri ragazzi, durante la rivoluzione è stato detenuto nei commissariati e in altri luoghi sparsi in tutto l’Egitto, pestato e interrogato con i teaser.
Al tavolo ci raggiunge May, giovane attivista del movimento Socialismo rivoluzionario, di ispirazione internazionalista, che mi spiega come le esperienze di Alessandria e del Cairo non siano paragonabili né per modalità né per risultati ottenuti. Alla domanda se la rivoluzione sia nata dopo che Mohammed Buoazizi si diede fuoco davanti al municipio in Tunisia, lei risponde perentoria che l’inizio della rivoluzione egiziana avvenne molto prima, senza campanilismi, ad Alessandria e storce il naso contrariata verso quella retorica accademica europea che vede un filo conduttore comune nelle rivolte scoppiate,che riesce addirittura a inserire in essa la guerra in Libia: «Il periodo tra il 2005 e il 2008 fu un periodo fiorente per il movimento socialista egiziano, come per quello di ispirazione liberista. Le privatizzazioni portarono all’acuirsi dello scontro di classe con l’intensificarsi degli scioperi e delle manifestazioni contro il regime».
La brutale repressione a ogni forma di opposizione si manifestò con tutta la sua forza e gli arresti e i feriti furono numerosi fino al suo apice, il 6 giugno 2010, quando un giovane di Alessandria, Kahled Said, venne ucciso in un bar. Inizialmente etichettato come un suicidio per ingerimento di droga, l’episodio costituì l’inizio della rivoluzione. «Alessandria, a differenza del Cairo, non centralizzò fisicamente la protesta, individuando nella marcia, e non nel sit-in come a Tahrir, la forma migliore di protesta». Con il senno di poi, questo ha permesso a molte più persone lontane dai discorsi della piazza, di poter essere raggiunte da quella voce di cambiamento: «Tre furono i luoghi principali da cui partì la rivolta: la chiesa di Kitsim, il mercato Backus e il quartiere di Mancheja, di fronte la Corte di giustizia». Numericamente, secondo May, questo atteggiamento è risultato vincente. «Se molte persone, per esempio a Nasr City, quartiere a nord ovest del Cairo dove poi si concentrarono le proteste al decreto del 22 novembre, sono lontane dai discorsi della rivoluzione, il motivo è da cercare nella strategia del sit-in. Se volevi partecipare dovevi per forza andare a Tahrir!».
Ma tolta la strategia, i numeri attuali, anche ad Alessandria, sono scemati. Ehmed non a riesce a credere come la moschea di Kaid Ibrahim, quello stesso luogo divenuto un collettore della rabbia poi esplosa ad Alessandria, possa essere diventato il megafono dei controrivoluzionari più conservatori. Lui era presente quel venerdì quando l’Imam Ahmed al Mahallaw invitò i presenti a votare “si” per la nuova costituzione. Anche al Cairo quelli furono giorni di rilancio all’insubordinazione, con presidi in Marghani street e altri in Midan Tahrir, con momenti di entusiasmo generale nel partecipare all’apertura di varchi nei muri eretti a protezione del Tahadeja, il palazzo presidenziale a Nasr City.
Ciò nonostante i Fratelli Musulmani dopo aver dimostrato come possano diventare il braccio repressivo di una guardia presidenziale pronta a difendere gli interessi corporativi e in alcuni casi perdere la vita per essi adesso mostrano il loro lato più moderato. È ormai lontana quella pratica vista nei giorni precedenti il voto costituzionale, nel quale molti Fratelli Musulmani usciti dalla moschee di fronte il palazzo presidenziale si asserragliarono in preghiera, bloccando integralmente la strada a macchine e passanti chiudendo la via di fuga che di li a poco avrebbe schiacciato il presidio che da cinque giorni si teneva di fronte Tahadeja, per l’arrivo di un numero ingente e compatto di fedelissimi di Morsi. Gli organi ufficiali avrebbero, nei giorni della commemorazione del secondo anniversario della rivoluzione, piantato nelle aree verdi del Cairo e non solo, tanti alberi in opposizione simbolica alla distruttività degli oppositori.
Nei giorni successivi la rivoluzione, il centro legale Hesham Mubarak, che offre supposto legale alle vittime di tortura e di detenzione arbitraria, ha registrato la detenzione di ottomila egiziani, per la quasi totalità uomini, con l’accusa di offesa alle istituzioni e incitamento via internet all’insubordinazione e allo sciopero. Nel periodo di reggenza del presidente Morsi, prima del secondo anniversario della rivoluzione egiziana e dei verdetti della strage di Port Said, cinquantotto sono stati gli arresti con la stessa accusa e, nonostante i Fratelli Musulmani si siano eretti a difensori della rivoluzione, il reato di incitamento non è stato abrogato, così come non vi è ancora in Egitto una distinzione tra pena civile e giudizio militare, eliminando tutte le garanzie previste nei giudizi civili. Hamad Jusseri, uno dei diciassette avvocati membri della sede dell’Hesham Mubarak Law Center di Cairo, fa parte della schiera delle vittime di tortura e detenzione arbitraria con la medesima accusa di incitamento e racconta come nei giorni successivi al 25 gennaio l’intera squadra di avvocati sia stata arrestata dai militari e trattenuta per sei giorni.
Tahrir è quasi deserta, le tende sono sempre meno e ad aumentare sembrano essere solo i pennacchi fumanti dei carretti degli ambulanti. Il servizio d’ordine interno sembra stanco e gli accessi principali non sono più controllati. Successivamente all’esodo di fronte Tahadeja, il palazzo presidenziale del Cairo, Tahrir soffre lo smacco di una strategia troppo statica facilmente reprimibile e giudicata infruttuosa. Quel malcontento della classe sociale più istruita che trasversalmente contribuì con il suo numero a riempire Tahrir si è allontanata dalle piazze. Il gioco si è spostato tutto in parlamento e la cautela diventa un sentimento generale. A popolare le piazze sono ragazzi a cui Tahrir sta troppo stretta. Quella grande illusione di cambiamento ha fatto i conti con il riavvolgersi a se della vita quotidiana portando il dibattito pubblico politico a una deriva fin troppo realistica da repubblica navigata. Con ciò non voglio dire che la gente abbia smesso di parlare incessantemente di politica ma che questo non traducendosi in partecipazione non da più alla piazza di essere un ruolo di collettore di contenuti. La paura di essere tacciati come mandanti di violenze, rende i partiti restii a partecipare ufficialmente alle manifestazioni nel momento strategico che precede l’elezione dei deputati della Shaab.
Durante l’assemblea di oggi nella sede di Al Tayyar al-Masri al Cairo, si cerca di capire come collegare il malcontento allo scopo di ricevere il numero maggiore di voti per i candidati alle elezioni della Shaab, la seconda camera del parlamento egiziano, ma Ehmed è consapevole come il dibattito interno al movimento ormai ha deviato dalle richieste originarie nate nelle strade e che ora il gioco elettorale sta assorbendo tutte le energie. Analizzano tutti i dati dei risultati del voto costituzionale, provincia per provincia, per capire come dovrà svolgersi la distribuzione di un questionario appena redatto allo scopo di capire le richieste del nuovo elettorato.
Il clima post elettorale delle alleanze nel clima polarizzato tra teocratici e secolari sta imponendo, come sta avvenendo adesso nel partito di El-Baradey, El Doustour, facili alleanze con gli ex fedeli al regime di Mubarak, che malgrado tutto alle elezioni presidenziali hanno preso il 40% delle preferenze. «Questo gioco a perdere ci sta facendo dimenticare i motivi per i quali siamo scesi in piazza e per i quali in molti abbiamo perso la vita: lo strapotere e i privilegi dell’esercito e l’abbattimento dell’apparato tecnico burocratico colpevole di abusi e corruzione». Se l’architettura rimane identica come ci si può aspettare il cambiamento?
Le promesse di piazza pulita dei vecchi collusi con Mubarak sono state tradotte nella nuova costituzione bandendo per i prossimi cinque anni all’attività politica coloro che hanno ricoperto ruoli di spicco durante il trentennio Mubarakiano, che tradotto significa: mano libera in attività economiche per gli interdetti dalle cariche politiche ma per gli altri si prospetta la carta del trasformismo, scelta obbligata in un momento come questo di formazione del neo tessuto politico delle alleanze. In ogni caso fin quando la costituzione non sarà implementata con le leggi in parlamento, rimarrà lettera morta. Degli attuali nove ministri nominati da Morsi, quattro di essi sono felloul. Ahmed Jamal ministro degli interni, Ahmed Zaki ministro dello sviluppo locale, Osama Saleh ministro per gli investimenti e Abdelaawi Khalifa ministro dell’acqua potabile e delle semplificazioni.
Se ci pensiamo, la rivoluzione al suo diciannovesimo giorno è stata interrotta dalla pacificazione manu militari dell’esercito che con il senno di poi ha stravolto un percorso a tappe che nella pratica ha seguito il senso contrario. Sarebbe dovuto accadere che tutte le formazioni emerse con la partecipazione delle forze sconfitte, composta una costituente, avrebbero deciso le regole del nuovo gioco politico preparando l’Egitto alla prima elezione diretta di un capo di stato. Ma è avvenuto l’esatto contrario. Le innate fiducie egiziane verso la propria guida ancora una volta hanno giocato a loro sfavore, almeno per quella parte che rimane ancora nelle strade a protestare. La costituzione adesso è stata votata ma per il momento la sua implementazione rimane sospesa visto che le elezioni della nuova camera sono state rimandate ad aprile.
“Only god can stop us”: questa frase che campeggia su un muro lungo una strada di Alessandria che porta alla piazza intitolata al re Vittorio Emanuele II, mi stupisce per la sua capacità di essere interpretata. Può significare che ogni potere non più rappresentativo può essere spazzato via ma può anche significare che se il sentimento religioso assume strumentalmente il potere, allora non c’è nulla da fare. Siamo spacciati: it’s just another president. (domenico d’alessandro)