Venerdì 16 marzo, sono le cinque del pomeriggio. Arrivo puntuale, e già vedo i petardi scoppiare lungo la Rue Colbert, che dalla metropolitana porta alla Place Jules Guesde, da cui, per quel che ne so, partono tutti i cortei di Marsiglia. Mi dico allora, che forse sono già in marcia. Era solo qualcuno che aveva fretta di far rumore. Sono ancora fermi, gli anar e i toto, gli anarchici e gli autonomi, i miei nuovi amici francesi, in piedi sotto l’arco della Porte D’Aix.
Là dove c’era una città, ora c’è l’erba. Euromediterranée, l’enorme programma di “riqualificazione urbana” che sta ridefinendo da più di quindici anni il volto della città, ha decimato i negozi e le bancarelle del marché du Soleil, mercato popolare e multietnico di cui riesco ad avere nostalgia anche senza mai averlo visto com’era una volta. Al suo posto, ora, cantieri e aiuole vuote e anonime. Non più di cento persone, di cui ormai riconosco quasi tutti, in questo corteo “contro la caccia ai poveri”. L’altra metà, non posso saperlo, hanno i cappucci, gli occhiali da sole, le sciarpe fin sopra il naso. Alle feste come ai cortei, anche quando stanno fermi senza fare nulla, i francesi si rendono irriconoscibili. Questa pratica, così come il rapporto paranoico con cellulari, macchine fotografiche e social network, si spiega almeno in parte con la quantità impressionante di telecamere e polizia. Proprio questa settimana, dopo il quarto omicidio nell’arco di pochi giorni, per regolamenti di conti e storie di mafia, Parigi ha mandato un nuovo manipolo di agenti in città. Trecentotto, tra CRS, che sono come la nostra celere, e gendarmi. Partiamo in corteo.
A Cours Belsunce si lanciano scarpe in aria, i lacci annodati tra loro, che rimangono appese sui fili del tram. Nelle cités dei quartieri nord le scarpe da ginnastica appese in alto indicano i posti dove si spaccia, ma a quanto pare è diventato di moda. Il volantino di oggi è molto generale, ma altrettanto chiaro. In due parole, lasciate in pace gli abitanti di Marsiglia.
H., una studentessa di sociologia urbana, dopo avermi redarguito più o meno scherzosamente per il volto scoperto, mi indica uno a uno i palazzi della Canèbiere: «Questo era un negozio di scarpe economico, diventerà un albergo di lusso, quest’altro deve diventare una boulangerie elegante, ma prima devono cacciare quelli che ci abitano…», e così via. Saliamo fino alla stazione Saint Charles, un’allegra brigata di incappucciati arrabbiati con le guardie. Nel frattempo, qualcuno distribuisce volantini, in arabo e francese, che esortano a non pagare l’affitto né i trasporti. La gente non mi pare molto solidale. «Ma perché è scritto in arabo?», domanda un ragazzo all’apparenza di origine maghrebina. E, lungo il Boulevard National, qualcuno ci tira un uovo.
Iniziano a caricarci sotto un tunnel. La dinamica non mi è ancora chiara, pare fosse per difendere un poliziotto in borghese, riconosciuto e attaccato dai manifestanti, ma sono solo voci, tanto meno attendibili quanto più passano dal francese all’inglese, e dall’inglese di nuovo al francese, allo spagnolo, all’italiano. L’aria non è più aria, tra i lacrimogeni, i fumogeni e lo smog di sempre. Ci ricomponiamo e proseguiamo, ma alla seconda carica iniziamo a disperderci, e me ne vado a bere una birra con F.. Mi chiedo ancora dove fossimo diretti. Nessuno lo sa.
Con F., riprendiamo la strada verso il centro, e mi fermo per comprare dei dolci, è il compleanno di un’amica. Nella pasticceria la televisione è accesa su un’emittente tunisina. Ci mettiamo a chiacchierare di politica con il proprietario, ma quando capiamo che è entusiasta di Ennahda paghiamo e salutiamo, in fretta ma gentilmente. Mi regala due pasticcini. Inizio a capire questa città che ha votato un sindaco dell’UMP di Sarkozy, nonostante i tassi di disoccupazione e di popolazione musulmana più alti di Francia. Si vota per stare tranquilli.
Il giorno dopo, è il giorno del Carnevale della Plaine. Piove, quattro persone sono state arrestate durante il corteo di ieri. Arrivo alla Paline, nome ufficiale place Jean Jaurès, in largo anticipo. Il concentramento è alle quattordici, ma la partenza è prevista per le quindici. Ci sono buone probabilità, insomma, di non iniziare prima delle sedici. E infatti alle due e mezzo, quando arrivo, ci siamo io e S., un anarchico attempato che è sempre a tutti i cortei. E otto camionette di CRS. Per un carnevale di bambini, niente male. Per passare il tempo m’incammino verso l’Ostau du Paìs Marselles, il centro di cultura occitana, che ha organizzato buona parte del carnevale. Una signora dell’Ostau, con un costume strano di piume nere, è arrabbiatissima con gli autonomi. Se c’è tanta polizia, sostiene, è colpa del presidio di solidarietà ai quattro arrestati di ieri, convocato per le cinque davanti al commissariato di polizia. «Adesso i bambini non potranno fare il corteo! Per colpa di questa manifestazione di autonomi deficienti! Che poi questi non sono nemmeno di Marsiglia!». Cerco di metterle le cose da un altro punto di vista, ma lei non sembra voler dare ascolto al mio accento, che tutti scambiano per russo. Alla fine il carnevale viene benissimo, con il gruppo di batucada e quello di musica gitana, e la farina e le uova che volano qua e là, portate a spasso da un gelido maestrale. Nei costumi c’è spesso una vena satirica, ma anche parecchie maschere da wrestling. Un bambino con passamontagna e mitra, un guerrigliero per l’occitania indipendente, mi cosparge di farina.
«Ce ne sono veramente troppi vestiti da CRS», commentano tutti. Il carro principale rappresenta un cerbero a tre teste. Una rappresenta la repressione e le telecamere, una la speculazione immobiliare, l’altra la cultura ufficiale, o come la chiama il giornale CQFD, incultura, di “Marseille 2013”. Dopo un lungo giro ritorniamo sulla Plaine. I bambini a decine salgono sul camioncino rosa, da cui cantano cori come «Parigi, Parigi, Vaffanculo!» e «Polizia bastarda!». Dietro di me, una poliziotta si lamenta della strumentalizzazione dei bambini. Poi cominciano i cori sull’Olympique de Marseille, e dal camioncino Alessi spiega cosa rappresenta il carro: ci si prepara a dargli fuoco. Tutto finisce in musica e vino, e una danza intorno alle fiamme che avvolgono i brutti musi della videosorveglianza asfissiante, della gentrificazione massiccia, di Mp2013, con i suoi spettacoli carissimi e la sua gestione opaca e verticistica. Tra la musica e il vino, gli amici e il fumo, penso che tra qualche settimana tornerò in Italia. E che mi mancherà tanto, questa Marsiglia qua.
Che manchi a me, però, non fa niente. Quello che mi preoccupa, è che potrà mancare anche a quelli che resteranno. (giulia beat)
By alr March 19, 2013 - 11:11 pm
gentrification partout, justice nulle part
https://www.youtube.com/watch?v=kPNJvjK1FLo&feature=channel