
( archivio disegni napoli monitor )
Il forum sociale mondiale, dal 26 al 30 marzo, è per molti, anche per me, solo un pretesto per andare a Tunisi. La Tunis Air, compagnia aerea di bandiera, fa uno sconto del cinquanta per cento agli stranieri che vanno al forum, per assistere al quale gli occidentali pagano trenta euro. Esclusi giornalisti o sedicenti tali, certo. Già queste premesse mi suscitano qualche perplessità sull’organizzazione dell’evento, il cui primo appuntamento, a Porto Alegre nel 2001, aveva dato vita al movimento altermondialista, o no-global che dir si voglia. Al mio arrivo, quindi, non mi sorprende troppo sapere degli svariati arresti che hanno preceduto il forum, per mettere in sicurezza la città prima della venuta degli attivisti internazionali. Al contrario di quanto avviene agli occidentali, per i quali avere il visto è stato anche più facile del solito, molti algerini e marocchini rimangono bloccati alla frontiera, così come i rifugiati del campo di Choucha, che, fatta eccezione per una delegazione di nove, sono trattenuti nella città di Ben Guerdane dalla polizia e dall’esercito tunisini.
Arrivata con l’aereo della Tunis Air con quattro ore di ritardo, prendo un intrepido taxi che, nonostante il traffico indicibile, con cinque dinari (circa due euro e cinquanta), dieci minuti e una quindicina di sensi vietati mi fa arrivare in tempo per l’ultima parte del corteo di apertura del forum. È un enorme sfilata con tanto di concerto finale. Non il genere di cose che cambiano la storia, penso, ma mi diverto. Intorno a me ragazzini giovanissimi gridano slogan in arabo con trasporto. Incontro Salwa, diciassette anni «sono qui perché mio zio fa parte di el Massar, un partito progressista di sinistra, quindi sono obbligata – mi dice. – Ma comunque è bellissimo – aggiunge subito – quando vado ai cortei sono fiera di essere tunisina». Fatma, un’altra studentessa, mi spiega i cori che si stanno cantando: «Incoraggiamo tutti i rivoluzionari e diciamo che il sangue di Shukri Belaid non è stato versato invano, e che ogni tunisino è pronto a sacrificarsi come lui».
L’eroe del momento, inutile dirlo, è lui Belaid, leader della sinistra tunisina ucciso davanti casa sua, tre mesi fa, nel quartiere di El Menzah, «un quartiere ricco, tranquillo, sicuro», mi spiega un amico di Tunisi, mentre ci passiamo con la macchina tornando all’INEPS, l’istituto di educazione fisica dove alloggiamo. Nessun tunisino minimamente progressista dubita del fatto che ci siano responsabilità importanti di Ennahda, il partito di governo, nella morte di Belaid. Le discussioni che si fanno riguardano piuttosto il quadro generale, o, al contrario, le dinamiche all’interno del partito.
Con il mio amico Morad, dopo giorni interi passati a parlare solo di politica, capita che chiacchieriamo di calcio. Ha una squadra del cuore per ogni campionato d’Europa, tuttavia mi confessa che, da dopo la rivoluzione, segue molto di meno il calcio, e non è l’unico. Un po’ è per il rinnovato interesse riservato alla politica, un po’ anche che, dallo scorso anno, le partite sono a porte chiuse e c’è meno sfizio.
A Tunisi il clima culturale, nonostante i divieti e gli obblighi non manchino, è vivace come pochi. Al forum sociale incontro Amine, scrive poesie in dialetto tunisino e le declama in pubblico insieme al suo gruppo, Klem Sharii, parole di strada. Senza chiedere autorizzazioni, per la strada, in cerchio. In modo che chiunque si possa unire. «Prima del 14 gennaio lo spazio pubblico era confiscato dalla polizia in borghese, oggi ci sentiamo obbligati a rioccuparlo perché non ritorni nelle mani delle autorità». Ai loro incontri, mi racconta, sono venuti anche dei ragazzi dai quartieri popolari, all’inizio per disturbare, invece più tardi sono ritornati con dei testi da leggere, scritti da loro per la prima volta. «Durante il mese di Ramadan abbiamo avuto un braccio di ferro con la polizia di Tunisi, che ci voleva impedire le occupazioni di suolo, ma quando hanno visto che eravamo più di cento, e determinati a restare, hanno lasciato perdere».
Nabil, studente di cinema conosciuto nello spazio anarchico, occupato e autogestito all’interno del social forum, mi racconta dell’esperienza di Ahl Al Kahf, “la gente della caverna”, gruppo di writers e artisti radicali che lavorano in maniera collettiva un po’ dappertutto in Tunisia, anche nelle regioni dell’interno, le più povere e conflittuali. Sul loro manifesto, visibilmente ispirato al situazionismo, si legge “preferiamo dipingere con dei bambini, dei vagabondi, dei delinquenti o degli ubriaconi di strada, perché questa è la “Ahl al Kahf”. Oltre a graffiti e stencil, continua Nabil, «hanno organizzato grandi proiezioni di messaggi incitanti alla rivolta, sui palazzi e sugli hotel. Hanno anche un progetto di studio di registrazione dove tutti i rapper e gli artisti dei quartieri popolari possono registrare senza spese. C’è poi un altro gruppo di street art, Zwewla, che significa i poveri. Non seguono nessun canone artistico particolare, il loro scopo è passare dei messaggi attraverso i muri. Alcuni di loro sono stati acchiappati e andranno in prigione». Mi informo più tardi su internet: due di loro sono stati effettivamente arrestati e saranno processati il 10 aprile per dei murales a Gabès. Rischiano fino a due anni e tre mesi di carcere, e diciassettemila dinari di multa, quasi novemila euro. Finalmente, quindi, capisco le bandiere con la Z che si vedevano in giro per Tunisi.
A un’incontro dal titolo “la rivoluzione culturale tunisina” incontro Bassem, trentun’anni. Mi racconta che aveva un lavoro di portiere d’albergo. Un giorno è stato arrestato, sotto il regime di Ben Ali, con l’accusa di furto in casa. L’hanno sballottato da un commissariato all’altro per quattro giorni: Gafsa, Kasserine, Nabel, Sfax, Sidi Bouzid infine Thala. Arrivato a Thala la polizia gli ha chiesto scusa, c’era stato un’errore di battitura. «Ho chiamato in albergo, ma mi hanno detto che ero stato licenziato. Allora sono andato in commissariato per avere un documento che certificasse la mia innocenza. Mi hanno insultato, picchiato e rotto un dente e il naso, poi mi hanno mandato in carcere con l’accusa di ubriachezza. Ci sono rimasto dall’undici dicembre all’11 gennaio, tre giorni prima della caduta di Ben Ali. Non avevo nessuno che potesse difendermi; allora, per protesta, sono andato ad occupare il vecchio commissariato di Thala, che aveva bruciato durante i giorni della rivoluzione». Bassem vive all’interno del commissariato a un anno e mezzo. «L’ho coperto di scritte, prima le poesie classiche della letteratura araba, poi parole di rapper, e slogan della rivoluzione, la mia storia è diventata famosa, i miei graffiti sono andati anche su Al Jazeera. Ma non ho ottenuto nulla. Oggi quando visiti una stazione di polizia, il trattamento di facciata è migliore di prima, ma in realtà sono sicuro che continuino a seguire i vecchi metodi. E se liberano i prigionieri, è soltanto per inquadrarli in politica».
Al forum, il gruppo più frizzante è proprio quello degli anarchici del movimento Disobey. Hanno occupato uno spazio, evitando la tassa di iscrizione, e diffondono un volantino che denuncia i finanziamenti al social forum da parte di partiti occidentali e organizzazioni come l’UNCHR, responsabili delle sofferenze dei rifugiati di Choucha, a sostegno dei quali Disobey organizza una cucina sociale. Lì incontro Abduh che mi racconta di Weld El 15, rapper condannato a due anni per un pezzo in cui chiamava i poliziotti “kleb”, cani. «Oggi stesso, 28 marzo, mentre qui si tiene il forum sociale mondiale i poliziotti hanno tirato proiettili da caccia contro i manifestanti di M’dhila, a Ghafsa, che protestano per il diritto al lavoro. Se uno spara su dei manifestanti con dei proiettili che si usano per ammazzare i cani, non può che essere un cane lui stesso».
La settimana passa in fretta, non me ne rendo neanche conto e sto già andando a prendere il taxi per l’aeroporto. Passo un’ultima volta su Avenue Bourguiba. «Questo filo qua è nuovo – mi spiega Mourad. – Tutti odiano il ministero dell’Interno, era qui che venivamo a manifestare, nel 2011. A gridare dégage». Cerco di immaginare una folla di giovani arrabbiati al posto della cortina di filo spinato che circonda il marciapiede antistante il palazzo del Ministero. «Certo che è triste», commento. «Sì. Simbolicamente è molto triste» mi conferma Morad. La nuova costituzione è ancora in sospeso e la data delle elezioni, secondo Dhouha, studentessa e militante anarchica, sarà decisa solo quando la coalizione di governo sarà sicura di vincere. Aggiungiamoci pure un partito dei lavoratori che per far piacere ai musulmani credenti ha perso l’aggettivo “comunista” (cosa vi ricorda?) e una polizia imprevedibile e violenta, si prospettano tempi duri. Ma i tunisini, mi sembra, non resteranno a guardare. (giulia beatrice filpi)