Comincia oggi pomeriggio la due giorni del convegno “Che fare? gli operatori sociali dentro la crisi”, promosso dal Centro territoriale Mammut, la rivista di pedagogia gli Asini e la rivista Lo straniero, nel Convento di San Domenico Maggiore a Napoli (v. il programma).
Ci sono molti modi per misurare la crisi delle politiche sociali. Ne propongo uno, certo parziale, ma che non lascia spazio a molte interpretazioni. Nel 2013 la risorse statali dedicate agli interventi sociali (quelle per intenderci del Fondo nazionale politiche sociali), ammontano a 4,9 euro per abitante. Si, non avete letto male, sono quasi cinque euro. Certo si tratta di risorse ancora incerte, perchè, a oggi, il decreto che ripartisce queste risorse (in tutto 295 milioni di euro) è fermo al Ministero dell’Economia, minacciato di nuovi tagli. In ogni caso non ci si può lamentare se consideriamo che nel 2012 le risorse statali stanziate sono state circa settanta centesimi per abitante.
Chi opera nel sociale guarda ormai con nostalgia ai temi delle vacche grasse, quando ancora nel 2008, la quota statale ammontava a undici euro per abitante. Oggi la crisi e le politiche dell’austerità che colpiscono in maniera indiscriminata tutti i settori delle politiche pubbliche, tolgono ossigeno al sistema degli interventi e delle politiche sociali che mai è stato in buona salute. Un sistema da sempre schiacciato tra le voragini del sistema sanitario e l’intricato mondo del sistema pensionistico.
Le cause di questa fragilità strutturale sono tante. La prima è forse da ricercare in un approccio culturale che, nonostante le buone intenzioni, le lotte e l’adozione di un lessico sempre più specialistico, confonde la carità e l’assistenza con le politiche e gli interventi sociali. Ancora oggi, al di la di ogni sforzo, larga parte del sistema di assistenza materiale e immediata (dormitori,mense, centri di prima accoglienza) è affidata alle organizzazioni religiose che operano in virtù della completa assenza di politiche e interventi pubblici strutturali.
La colpa ovviamente non è nelle forme religiose che fanno il loro mestiere (seguendo una logica coerente con il loro mandato spirituale), ma del deserto strutturale delle politiche pubbliche. Nel nostro paese, l’assenza di forme di reddito di cittadinanza rende impossibile ogni forma di intervento pubblico di reale contrasto alla povertà estrema. E anche le forme di carità governativa come la social card (ben quaranta euro al mese) sono sempre inferiori alla capacità di aiuto di un buon parroco di provincia.
La seconda responsabilità (tra le tante) è dovuta anche, a mio avviso, al fatto che si è voluta privare la parola sociale di ogni connotazione politica (intesa nel senso alto della parola), privandola di una propria autonomia teorica. Il sociale è qualcosa che, nella ripartizione delle deleghe di governo, diventa complementare alla sanità della quale imita il linguaggio burocratico e i termini (autorizzazione, accreditamento) o, quando va meglio diviene complementare, ma solo formalmente, alle politiche per il lavoro.
L’idea che l’intervento sociale sia qualcosa differente da una ordinaria logica di offerta di servizi alla persona, che vi debba essere una precisa idea di cambiamento, una visione politica del territori, delle diseguaglianze sociali e delle vulnerabilità sociali, vive forse nella coscienza di qualche operatore e di poche organizzazioni, ma è completamente dispersa, affogata nelle frammentarie logiche delle amministrazioni pubbliche.
In questo scenario, sono due i soggetti che per primi pagano le conseguenze di questa crisi nella crisi. Da una parte ci sono quei cittadini (pochissimi a dire il vero) che beneficiavano di servizi oggi sospesi o interrotti, dall’altra gli operatori sociali, precari e sottopagati, che per entusiasmo, passione o caparbietà si sono fatti carico di fragilità di sistema.
Che fare? Se oggi si vuole aprire la possibilità di non dovere definitivamente celebrare il funerale del welfare bisogna ripartire da questa nuova alleanza tra operatori e cittadini (utenti). Una alleanza che sappia restituire alla parola intervento sociale la dimensione di senso che le è propria. Quella del cambiamento e della lotta alla povertà e alla diseguaglianza. (dario stefano dell’aquila)
By monitor May 10, 2013 - 12:44 pm
gli operatori sociali, quelli compagni non i boy scout e le suorine, dovevano allearsi con i cittadini (non con gli utenti, lessico padronale) vent’anni fa. invece hanno preferito delegare ai sergi d’angelo. adesso raccolgono quello che hanno seminato. i sergi d’angelo continuano a galleggiare e loro vanno a fondo. ma alle alleanze non hanno mai creduto, né prima né adesso. il welfare è morto, qualcosa di nuovo nascerà.
By dariostefano May 11, 2013 - 10:52 am
condivido la critica del post all’articolo. e sono tante le cose che per spazio ho dovuto tralasciare. dobbiamo pero’, e di questo sono piu’ che mai convinto, analizzare le dinamiche generali dei fenomeni e i rapporti di forza, studiare i dispositivi discorsivi e i posizionamenti di campo. non penso che questo sia di ostacolo alle lotte locali, ma aiuti a collocarle in un orizzonte piu’ ampio. dariostefano
By Cesare Moreno May 19, 2013 - 5:42 am
El pueblo unido jamas serà vencido
Le cause di questa fragilità strutturale sono tante. La prima è forse da ricercare in un approccio culturale che, nonostante le buone intenzioni, le lotte e l’adozione di un lessico sempre più specialistico, confonde la carità e l’assistenza con le politiche e gli interventi sociali. Ancora oggi, al di la di ogni sforzo, larga parte del sistema di assistenza materiale e immediata (dormitori,mense, centri di prima accoglienza) è affidata alle organizzazioni religiose che operano in virtù della completa assenza di politiche e interventi pubblici strutturali.
Io credo che l’approccio caritatevole e quello preteso strutturale, quello che si riferisce ai numeri della povertà e dell’emarginazione sono strettamente intrecciati e complementari, così come è intrinseco a questo modo di vedere un modo di lottare che è sostanzialmente quello degli operai dell’ottocento.
Mi spiego. Ho una notevole esperienza in fatto di sconfitte e forse, prima di quella definitiva che è scritta nella carne di ognuno di noi, potrei anche imparare qualcosa.
La prima grande sconfitta è stata quella della politica nata dal 68. Per quello che mi riguarda la cosa è finita nel 75. Ci sono state potentissime ‘cause’ esterne, ma soprattutto siamo stati sconfitti da noi stessi, non siamo stati in grado di capire i mostri generati da noi stessi, e non alludo al terrorismo, quello è l’unico che – almeno un certo gruppo – abbiamo capito per tempo, ma alludo al virus del gregarismo da un lato e dell’illuminismo dall’altro (l’illuminismo come posizione filosofica non è cattivo, è cattiva la posizione di chi pensa di poter o dover governare gli altri solo perché ha letto tre libri in più o crede di averli letti meglio). Sulla distanza, dopo che ciascuno è andato per la sua strada hanno retto solo quelli che avevano una pratica sociale, ossia un legame sociale forte con una qualche realtà o professionale o di vita.
La seconda sconfitta per me è stata nel 95 quando avevo costruito insieme ad altri e su mandato dei ministri dell’epoca una potente apparato che doveva combattere la dispersione scolastica. Al primo tentativo di fare in modo che quell’apparato diventasse una comunità viva attraverso la coltivazione di una propria capacità riflessiva, sono stato estromesso e non una sola voce si è levata a protestare, non una sola voce si è levata a contrastare lo smantellamento pietra su pietra di quello che era stato faticosamente costruito. E sulla distanza ho constatato che ben pochi hanno mantenuto fede alla missione che ci eravamo dati preferendo farsi riassorbire dalle routine.
La terza sconfitta, piccola cosa, ma per me particolarmente dolorosa è stata la cacciata da una piccola struttura – quelli che a Napoli si chiamano semiconvitti – del mio quartiere dopo sei anni di lavoro gratuito, di grandi cambiamenti, di tentativi di dotare il quartiere di una struttura pensante e non solo di un centro di assistenza. Del lavoro mio e di tanti altri tempo tre giorni non c’era più traccia.
La quarta grande sconfitta è stata quella del progetto Chance. Un lavoro di unici anni cancellato senza che ancora oggi sappiamo chi lo abbia deciso, e senza che ancora oggi nessuno dei corresponsabili abbia sentito il bisogno di capire come sia stato possibile. Per quanto mi riguarda io credo di aver capito che ancora una volta la principale responsabilità è di chi stava dentro il progetto e principalmente tra chi lo dirigeva, tra i quali, ora che tutto è finito posso dire di essere stato il primo, giusto per rivendicare la principale responsabilità di quella sconfitta.
I motivi sono presto detti: anche quel progetto era portatore sano dei due virus antisociali: quello del gregarismo e dell’illuminismo. Abbiamo costruito una elite che riteneva di poter affrontare un problema perché studiava, ricercava e sperimentava, senza un vero coinvolgimento delle comunità, né quelle di vita né quelle professionali. Non è che non ci tentassimo, ma senza la sufficiente determinazione, senza la convinzione forte che la nostra sopravvivenza derivasse da questi legami.
Quando ci siamo trovati di fronte al nostro “otto settembre” (lo scioglimento dell’esercito italiano nella seconda guerra mondiale) eravamo completamente smarriti e non sapevamo cosa fare. Qualcuno ha ritenuto di dover alzare le bandiere rosse della lotta (alla lotta compete il rosso, per i partiti lo eviterei), ha fatto bene perché è l’unica cosa che aveva a portata di mano, ma non so quanto sia efficace o produttiva nelle forme e nei modi che ha scelto. Qualcuno ha pensato che bisognava certo lottare ma trovare una linea di resistenza, dare o meglio prendersi la parola insieme a quelli in nome dei quali si alzava la voce. Ricordo ancora ora la tristezza di quella sala nera del Cinema Modernissimo quando in sette o otto abbiamo tirato fuori la voce che non era né quella dei nostri giovani, né quella dei nostri colleghi e neppure la nostra, ma solo quella di qualcosa che già aveva smesso di vivere.
E così credo di aver capito una volta di più che l’unica strada è immergersi ancora più a fondo nella pratica sociale stando attenti alla costruzione dei legami molto più che al fronte di lotta. La lotta è dura e non ci fa paura, la lotta è di lunga durata dicevano altri, è continua altri ancora. Eppure nessuno di questi tre slogan è oggi efficace se non ci poniamo il problema da dove deriva la forza. El pueblo unido jamas serà vencido, gridavano i cortei tre ore prima di una catastrofica sconfitta Cile 1973).
Già, il popolo unito non sarà mai sconfitto. E’ vero. Chi è unito non viene sconfitto. I massacri, la repressione, la miseria, la dittatura alla lunga non hanno vinto, hanno vinto i legami: le madri e le nonne di piazza di maggio, i gruppi solidali che crebbero nelle montagne nell’inverno del 43, i gruppi di operai e di cittadini che hanno continuato a parlarsi e ad aiutarsi. Sono state sconfitte e massacrate elite generose, che si sono esposte e forse dovevano necessariamente farlo, ma forse era ed è necessario curare molto di più la tessitura dei legami profondi e capire quando è il momento di dedicarsi più al resistere che non a lanciare offensive.
Dunque è stato cancellato lo’stato sociale’. E’ stata cancellata anche l’idea. Quale idea? L’idea che uno stato centralizzato debba provvedere ai bisogni elementari degli indigenti e degli esclusi, e che fare questo abbia bisogno di corpi specializzati, organizzazioni in grado di ‘erogare’ i servizi relativi: case famiglia, centri diurni, assistenza domiciliare, centri dia accoglienza, centri socio-educativi, reddito di cittadinanza e quant’altro. Chi, nello stato o nelle grandi organizzazioni di erogazione di servizi, cooperative, consorzi e quant’altro, non ha altra strada da battere se non quello di richiedere il ripristino dei fondi. Troppo giusto, è l’unica cosa che sanno e possono fare.
Poi c’è la Caritas, i tanti volontari che soddisfano con pronto intervento bisogni ancora più immediati: una minestra calda, una coperta. Anche questo è troppo giusto, va fatto.
Però c’è da fare anche dell’altro. Continuo a pensare che la cosa più importante di tutte sia prendersi la parola, aiutare i poveri e gli esclusi a tirare fuori la propria voce, la voce dell’essere e non dei bisogni.
Sia lo stato sociale, sia le persone caritatevoli, sia le persone illuminate sono protagoniste, forse senza volerlo, di una gigantesca operazione di esproprio identitario: trasformano le persone in bisognosi e sono talmente forti ed autorevoli nel loro ‘lavoro sociale’ che dotano le persone di una falsa coscienza tale per cui i bisognosi stessi si pensano e si descrivono come tali. Se avete l’avventura di incontrare un tale bisognoso, questo grumo di bisogni cementati dal lamento, non potete esimervi da un moto di orrore: non sono più creature umane ma esseri onnivori e voraci in grado di divorare anche voi. Fortunatamente il più delle volte questa operazione di trasformazione identitaria risulta imperfetta. Qualcuno desidera ancora cambiare il proprio stato, qualcuno desidera ancora smettere di essere bisognoso e cominciare ad essere una persona. Dunque il lavoro sociale consiste nell’intercettare questi desideri e non sulla conta dei bisognosi e dei bisogni. Dunque il lavoro sociale dovrebbe consistere nell’attivazione delle comunità, nella creazione di gruppi umani solidali in grado di costruire risposte sociali solidali a bisogni individuali altrimenti compulsivi e degradanti. Bisogna pensare non ad un apparato di funzionari, ma ad un esercito disarmato di ‘consiglieri di comunità”, attivatori di cittadinanza. Forse da queste comunità potrebbero levarsi le voci che non chiedono provvidenze ma sono in grado di negoziare e di produrre democrazia e partecipazione agita.
Forse dentro queste comunità si possono trovare piccole risorse per sopravvivere, forse i pomodori di un orto urbano valgono più di 40 euro al mese della social card. Forse questi gruppi di resistenza potrebbero contare di più e dare forza anche alle elite della lotta dura e senza paura.
Siamo pieni di comunità: comunità appartamento, comunità famiglia, comunità di recupero, etc… siamo veramente convinti della magia delle parole: prendete una struttura segregata e la chiamate comunità e magicamente tutto cambia. In quale relazione sta un semiconvitto, un centro socio-educativo, una casa-famiglia, una comunità appartamento con il territorio in cui opera, con le comunità di vita? Esiste quello scambio circolare di significati che solo alimenta una comunità reale? Cosa ne sanno gli abitanti del luogo della casa famiglia in cui lavoro percependo uno stipendio (misero, maledetto e tardivo!)? Come li abbiamo chiamati ad arricchirsi di questa presenza negli anni addietro? La nostra splendida scuola della seconda occasione quanto è diventata parte della cultura locale, quanti sono disposti a curarla e farla vivere? Ecco a queste domande dovremmo rispondere quando ci troviamo impotenti di fronte a chi dice “tutti a casa”, l’esercito – lo stato sociale – è sciolto!