Nove giorni fa circa ottanta studenti della facoltà di scienze sociali dell’Università di Kabul hanno cominciato lo sciopero della fame, riunendo circa cinquemila sostenitori e sostenitrici, e per otto giorni hanno protestato davanti alla sede del parlamento afghano. Con il loro atto di protesta i ragazzi hanno voluto denunciare le discriminazioni razziali e di genere che avvengono quotidianamente all’interno dell’ateneo.
Il movimento di protesta è in realtà da circa cinque anni che denuncia veri e propri atti di discriminazione razziale finalizzati all’abbandono degli studi da parte degli studenti appartenenti ad alcuni gruppi etnici.
In Italia il problema delle differenze etniche all’interno all’Afghanistan non ha mai avuto rilievo, ma in realtà intorno a esso si sono sviluppati ed esplodono tuttora conflitti molto forti, che la presenza militare straniera non ha fatto altro che esacerbare. Nella stessa Kabul soltanto nella fase conclusiva la vicenda è stata riportata dalle due principali emittenti televisive. Nella capitale la massa di giornalisti (compresi quelli che dicono di fare “informazione indipendente”), militari, cooperanti di tutto il mondo ha ignorato un evento che rompe con l’abituale cronaca di attentati, fondamentalismo religioso, violenza sui bambini e sulle donne, malnutrizione. Evidentemente l’altra faccia del paese, quella di chi lotta per i propri diritti, non interessa più di tanto.
Gli studenti di Kabul hanno denunciato nel corso del tempo moltissimi casi di richiesta da parte dei docenti di soldi o di favori sessuali in cambio della promozione. Quando la situazione è diventata insostenibile i ragazzi si sono organizzati. Hanno scelto una via pacifica, ma la loro determinazione ha creato molto timore nei palazzi del potere e alla fine è stato lo stesso presidente Karzai a chiedere le dimissioni del preside della facoltà e di un professore, decretando così la vittoria del movimento di protesta.
Ora il governo e il parlamento devono fare i conti con un’intera generazione e questo di certo genera molto timore. Il dato più nuovo che emerge da questa vicenda è che c’è una generazione all’interno del paese che lotta con forza e determinazione per cambiare le cose. Sono ragazze e ragazzi che hanno deciso di andare avanti con gli studi e che, nonostante le enormi difficoltà in cui versa il paese, hanno dimostrato di avere la forza di conquistare i loro diritti.
Entrare all’università pubblica in Afghanistan è difficile, si deve superare un concorso nazionale molto duro, che richiede anche due anni di preparazione. Esistono anche molte università private, ma lì l’ingresso è esclusivamente in base alla disponibilità economica e trattandosi di istituti costosissimi l’accesso è fortemente selettivo.
I protagonisti della lotta di Kabul fanno parte di quella fascia che è riuscita ad accedere alla formazione universitaria pubblica, ma una volta iscritti hanno dovuto continuare a subire continue vessazioni e discriminazioni razziali. Il futuro del paese c’è, ed è svincolato dalla presenza militare straniera, dalle Ong che ancora non si capisce che ruolo abbiano, dai portavoce religiosi: sono semplicemente studenti, che contando solo sulle loro forze hanno dimostrato di essere davvero in grado di dare un futuro al paese. Domani saranno insegnanti, medici, ingegneri, psicologi, storici, scienziati, ricercatori, avvocati e forse, se riusciranno ad andare avanti con questa grande determinazione, potranno davvero rappresentare un’alternativa all’attuale classe dirigente.
Non è un caso che tutto sia partito dalla facoltà di Scienze Sociali, da quegli studenti che studiano le dinamiche della società, le sue potenzialità, le sue debolezze, le sue contraddizioni. (g.c.)